La volta in cui volevo diventare calciatore

Quando ero ragazzino mi appassionavano quasi tutti gli anime che trasmettevano in tv, nonostante le censure celassero spesso la trama reale e i nomi venissero italianizzati o americanizzati; uno dei miei anime preferiti era Holly e Benji (Capitan Tsubasa).
Chiunque avrebbe voluto emularne le gesta e diventare un calciatore professionista.
In fondo, perché no?

Il campo era così lungo che superava la linea dell’orizzonte e seguiva la curvatura terrestre, quindi andava a toccare più fusi orari.
Quando l’azione si svolgeva in una metà campo, i giocatori che si trovavano nell’altra potevano fare la doccia, tornare a casa, cenare, dormire e rientrare l’indomani.
Arbitro (non l’arbitro, ma Arbitro: era il nome proprio dell’unico direttore di gara di tutte le partite svolte, anche in contemporanea) viaggiava letteralmente sul campo di calcio, al punto che gli veniva riconosciuta l’indennità di trasferta.
In tutta la serie mi pare che abbia utilizzato il cartellino giallo un paio di volte e quello rosso solo una; del resto non lo si poteva colpevolizzare, visto che si trovava spesso a chilometri di distanza dal centro dell’azione. Non interrompeva mai la partita, tranne quando qualcuno finiva in coma o perdeva un arto; praticamente era come andare in guerra.
I giocatori, prima del fischio d’inizio, dovevano obbligatoriamente farsi rilevare le impronte digitali e dell’arcata dentale, così da essere identificabili anche in caso d’incidente. Considerando che potevano correre per duecento ore consecutive senza mai accusare la stanchezza, occorreva insabbiare delle mine antiuomo in alcuni punti casuali del terreno. altrimenti Telecronista (come Arbitro, era sempre lo stesso) non poteva mai approfittare della pausa per andare al bagno.
La stessa prudenza veniva applicata invitando i giocatori a indossare una maschera per l’ossigeno, in previsione di un salto in rovesciata o per colpire la palla con la testa. Il rischio di raggiungere la troposfera e perdere i sensi era troppo elevato e sarebbe stato complicato recuperare i corpi.

Il calciatore col pallone e lo sfidante si mettevano regolarmente a chiacchierare a partita in corso, rimanendo inebetiti uno di fronte all’altro; ovviamente i rispettivi compagni di squadra, anziché impadronirsi del pallone rimasto incustodito, si dedicavano ai fatti propri ordinando una pizza o spettegolando con i parenti presenti in tribuna.
Chi aveva la palla poteva fare quello che voleva: nasconderla sotto la maglietta e fingere di essere incinta, mettersi le dita nel naso, sedersi sulla palla o sfottere l’avversario dicendogli in tono intimidatorio: “Non riuscirai mai a rubarmela”. Da notare che sarebbe bastato allungare una gamba per sottrarre senza il minimo sforzo la palla a quell’imbecille.
L’avversario, sapendo che intanto Arbitro finiva spesso disperso, poteva accoltellarlo, piangere disperato come un bambino oppure replicare minaccioso: “Sacripante, come osi burlarti di me?”.
Spesso nascevano anche delle profonde amicizie che proseguivano negli spogliatoi, sotto la doccia (non necessariamente con un getto d’acqua…).

Quando era il giocatore più forte ad avere la palla tra i piedi, la squadra avversaria poteva schierare fino a ottanta calciatori contemporaneamente, in modo che il campione di turno potesse far fare loro una figuraccia ancora più grande.
Il pallone non usciva mai dallo stadio: mai una rimessa laterale o dal fondo, mai un calcio d’angolo. Date le asperità del terreno, però, talvolta la palla rotolava in qualche faglia e occorreva reclutare degli speleologi per andare a recuperarla.
Secondo gli astronauti a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, erano solo due le costruzioni terrestri visibili dallo spazio: la cupola del Truman show e lo stadio da calcio di Holly & Benji.
Occupando un’area più grande del Giappone, e per evitare che i giocatori affogassero nella Fossa delle Marianne, lo stadio veniva montato di volta in volta in qualche continente abbastanza spazioso. Per andare da un punto all’altro dello stadio si utilizzava la comodissima Transiberiana.

Lo stadio poteva ospitare fino a cinquanta milioni di spettatori (uno stadio reale arriva, al massimo, a poco oltre i centomila), ma erano quasi tutte comparse raccattate dalle cliniche psichiatriche, perché la gente sana col cavolo che avrebbe chiesto una settimana di ferie dal lavoro per assistere a una partita di bambini delle elementari.
Per spiegare come mai ci fossero ovunque le medesime condizioni meteorologiche, nonostante il campo fosse lungo poco meno di cinquecentomila chilometri, alcuni climatologi utilizzavano il terreno di gioco come laboratorio all’aperto e prelevavano campioni d’aria e di carotaggio del terreno per studiare il cambiamento climatico già in atto. Non raramente si verificava la possibilità di rinvenire fossili di calciatori deceduti in precedenza.
Al fischio finale di Arbitro solo i calciatori vicini a lui si accorgevano che la partita era giunta al termine: gli altri continuavano a correre, a ridere o a parlare da soli come degli psicopatici, anche se si era già fatto notte fonda. In quel caso, mossi a compassione, alcuni cecchini mettevano fine alle loro sofferenze con un colpo in testa.

Vi ho già detto che da ragazzino volevo diventare un calciatore di quel tipo? Sì, ora si spiegano tante cose…

Vittorio Tatti

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