Fatale (parte 3 di 9+1)

Questo racconto è molto liberamente tratto dalla mia recente esperienza con la Musa; molto liberamente significa che è inventato al 90% e che rappresenta unicamente il mio punto di vista. Qualche paragrafo conterrà materiale VM18.

Parte 1 di 9+1
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In seguito, dopo circa un anno di frequentazione nei soli blog, passammo a seguirci nei rispettivi social network. Avevi infranto il primo comandamento della tua riservatezza concedendomi il lusso di apprendere dettagli sensibili della tua vita privata. Per me fu come ricevere le chiavi di casa tua. Non quella principale, ovvio: al limite una seconda casa di campagna, frequentata dagli amici meno intimi, senza troppe foto confidenziali appese alle pareti. Una casa che, se non ti va più di possedere, la vendi o affitti ma senza il disagio di dover traslocare.
Finalmente potevo ammirare il tuo leggiadro e regale viso, per scherzo del destino o del caso molto simile a quello che avevo immaginato nei miei, nostri sogni.
Il celebre criminologo Lombroso era un sostenitore dell’atavismo, ossia la tendenza alla ricomparsa di alcuni tratti estetici primordiali risalenti ai nostri avi. Secondo quel ragionamento un individuo dedito ad attività criminali manifesta anche tratti estetici tipici degli uomini primitivi, ancora non evoluti. In poche parole: se sei un delinquente ti si può leggere in faccia.
Basandomi su quella teoria, nel tuo viso non potei fare altro che leggere i tratti somatici dell’amore, della passione, dell’attrazione, della bellezza, della muliebrità.

Il mio corpo venne attraversato da un getto di acqua gelida quando notai quello meno piacevole del tuo fidanzato dell’epoca. Quell’essere e immondo, schifoso e nauseabondo con due occhi, due orecchie, un naso e una bocca. Tu, insieme a un altro essere umano. E quell’umano non ero io. INAMMISSIBILE!
Fu un colpo al cuore scoprirlo, dal momento che nel tuo blog mantenevi il più stretto riserbo sulla tua vita privata. Fu la prima volta che maledissi il tuo bisogno di riservatezza.
Quella notte versai lacrime di afflizione. Persi l’appetito per giorni. Mi misi in malattia, convinto che presto le mie spoglie mortali avrebbero ceduto alla disperazione. Il mio corpo avrebbe esalato l’ultimo respiro e come unico testamento avrei lasciato un epitaffio: “Dite a Rebecca che l’amo”.
Per la prima volta capii sulla mia pelle quello che potevano aver provato i personaggi immaginari dei romanzi di Verga e Goethe. Compagni e compagne di sventura trafitti anche loro a morte dal dolore. Saltuariamente immaginavo di congiungermi a loro in un ipotetico paradiso riservato a chiunque fosse deceduto per l’esplosione del proprio cuore.

Eri fidanzata. Fidanzata. Fidzanat. Fizandta. Ffeiniwehbvuiwehgviuwehbgvi. Non ero più in me. Mi avevi reso analfabeta. Ero regredito al linguaggio gutturale degli uomini delle caverne.
Evitai di specchiarmi per non date adito alle teorie di Lombroso. Avrei visto il raccapricciante volto di mostro deturpato dall’agonia? Sicuro.
Ti concedevi a un altro. Avevi occhi solo per lui. Le sue mani toccavano il tuo corpo e tu glielo permettevi. E ti provocava piacere. Tu toccavi il suo corpo e lui te lo permetteva. E gli provocavi piacere. Vi toccavate senza provare ribrezzo, senza sentirvi molestati, senza dover chiedere il permesso l’uno all’altra. Tu appartenevi a lui e lui apparteneva a te. Avevate siglato un tacito accordo di complicità, intimità, unione carnale e mentale. Potevate vantarvi di essere un noi. Le anziane signore di paese, vedendovi passeggiare mano nella mano, avrebbero spettegolato: “Lei è la fidanzata di…”, “Lui è il fidanzato di…”, “Sì, ho sentito che hanno in programma di sposarsi e avere un figlio”, “Lui è così perbene, quanto è fortunata lei…”, “Lei è una donna tanto devota al marito…”, “La signora è in ospedale perché è in arrivo il secondo figlio”, “Stanno festeggiando i vent’anni di matrimonio”, “Lui è morto prematuramente, ma lei non si è più risposata”, “Erano proprio una bella coppia”.
Maledette comari di merda… Tacete!

Perché eri stata così disponibile nei miei confronti? Perché mi salutavi, auguravi una buona giornata, dicevi che sentivi come tue le mie poesie, m’incoraggiavi a esaltare la mia musa, mi provocavi invitandomi a inserire indizi nei versi per carpirne l’identità segreta?
Le poesie erano effettivamente destinate a te, ma tu non lo sapevi. Ti appropriavi dei miei versi e li mettevi in bocca a quel tuo… tuo… tuo… coso! Immaginavi che fosse lui a dedicarti dolci e appassionate poesie! Non ero l’amato: ero il Cupido!
Ti avevo persa, anche se non eri mai stata mia. E io avevo perso la voglia di vivere, anche se nemmeno la vita era mai stata mia, dal momento che l’avevo donata a te.
Ma tu l’avevi accartocciata come un fazzolettino di carta usato e gettata incivilmente tra le radici di un albero in un bosco incontaminato. Fin quando avevo uno scopo mi usavi. Fin quando riuscivo a strapparti un sorriso, una risata, una riflessione, uno spunto, riuscivi a tollerare la mia presenza. Ero una cavia per la tua ispirazione.
Ero meno che sostituibile, rimpiazzabile. Per te ero nessuno. Anzi, mi correggo perché nessuno si riferisce a una persona. Quale termine viene utilizzato per gli oggetti? Niente. Per te ero NIENTE!

[continua]

© Vittorio Tatti

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