La storia inenarrabile

Questa è la storia di un blogger. Per preservarne l’identità lo chiamerò Blogger. È anche la storia di due ragazze, anch’esse blogger. Le chiamerò Blogghina e Blogghetta. In ogni caso non si tratta di un triangolo amoroso.

All’epoca Blogger provava un certo interesse superficiale sia per Blogghina sia per Blogghetta. Entrambe avevano sia un nome, un cognome e un volto. A un certo punto Blogghina iniziò a interagire con Blogger più di Blogghetta. Questo contribuì ad approfondire la reciproca conoscenza, soprattutto caratteriale, e Blogger s’innamorò di Blogghina. Decise di chiamarla Musina (piccola musa). Non sapendo se il sentimento fosse reciproco Blogger si cancellò e sparì dalla blogosfera per circa un anno.
Quando ritornò ritrovò casualmente sia Blogghina sia Blogghetta. Il sentimento sopito per Blogghina ricomparve ed entrambi scoprirono di provare qualcosa l’uno per l’altra. Tuttavia Blogghina non se la sentiva di iniziare una relazione sentimentale e la storia si chiuse definitivamente.

Blogghetta era ancora lì, apparentemente accantonata. Nel frattempo Blogger aveva scoperto che era fidanzata e inoltre non aveva mai mostrato alcun tipo d’interesse particolare per lui. Non essendoci i presupposti per provarci con lei, Blogger si limitò a rimanere silenziosamente in disparte.
Blogger conobbe una ragazza fuori dal blog e iniziò una nuova relazione sentimentale. Dopo pochi anni finì e Blogger prese una pausa dagli impegni sentimentali.
Dal nulla, ma sempre presente nella blogosfera, Blogghetta riemerse nei pensieri di Blogger. Non poteva diventare una musa, anche se Blogger l’avrebbe voluto. Il segreto continuò a rimanere tale.
A distanza di tempo, in mezzo a tante altre, Blogghetta non è né un rimpianto né un rimorso. È qualcosa di indefinito per considerarla tanto, ma pensierosamente presente per considerarla poco.

Fine di una storia, e di due storie mai iniziate.

Vittorio Tatti

365 giorni (meno un mese) all’alba

Non oserei mai invadere un Paese straniero per brama di conquista ma, se la Legge me lo permettesse, verserei il sangue di qualunque invasore per proteggere la mia Patria. Lascio a voi la libertà di dare un’interpretazione al significato della parola “invasore”.
In passato non mi sono mai considerato un pacifista, ma nemmeno un guerrafondaio. La verità è che non avevo un’idea precisa del perché e del per chi, nel caso, avrei dovuto combattere.
Il mio pensiero attuale è sintetizzato poco sopra, ma non sono diventato un sostenitore della guerra. Preciso che non me ne importa niente delle vittime umane derivanti dalle manovre militari volute da qualche pazzo megalomane: m’importa unicamente degli animali uccisi e dell’ambiente devastato.
Ma, se esistesse una bomba tanto potente da uccidere ogni singolo umano presente sul pianeta e se quella stessa bomba non recasse alcun danno né agli animali né all’ambiente, mi offrirei volontario per premere il pulsante dell’autodistruzione.
Il mio pensiero è chiaro?

I racconti degli anni scolastici sono terminati. In teoria avrei altre cose da scrivere su quel passato, soprattutto per rispondere alla domanda fondamentale: “Visto che non facevi un cazzo a scuola, come trascorrevi il tempo che avresti dovuto riservare allo studio?”. Qualcosa ho già raccontato e il resto lo rivelerò un altro giorno, perché oggi l’articolo sarà dedicato al servizio militare (o, come si chiamava una volta, naja), il quale era ancora obbligatorio ai miei tempi.

Della guerra non me ne fregava niente e, sinceramente, nemmeno della pace, quindi evitai di fingermi un falso obiettore di coscienza. Per motivi di studio (lo so: è un termine fuorviante) riuscii a rimandare un paio di volte l’inevitabile arruolamento.
Divenuto maggiorenne, però, dovetti presentarmi lo stesso a La Spezia (abitavo ancora a Genova ed ero ancora virtualmente studente) per i canonici tre giorni di visita medica, per valutare l’idoneità al servizio di leva. Essendo nato a Ottobre sarei stato destinato alla Marina Militare (due anni di durata, almeno prima del mio arruolamento).
Sinceramente quel primo assaggio di vita da caserma non mi provocò chissà quale crisi d’ansia, anzi: potevo stare tre giorni lontano da casa e dagli assilli di mia madre.
E ammetto anche di aver sempre provato un certo fascino per la disciplina da caserma (o da monastero): rispetto degli orari, compostezza, atteggiamento virtuoso e via dicendo. Prendere ordini un po’ meno, ma li avrei eseguiti fin tanto che ne avessi approvato il fine.
Sapevo già che condividere quell’esperienza con altri maschi non mi avrebbe fatto molto piacere, ma non potevo oppormi altrimenti ci sarebbero state conseguenze legali.

Anticipo subito che non ebbi mai la sfortuna di imbattermi in violenti atti di nonnismo, almeno nei miei confronti. A esclusione del minchione di turno che si atteggiava a Rambo se provavi a saltare la coda per la mensa o se saltavi il turno di pulizia, non subii mai soprusi fisici o psicologici.
Sì che, come ho detto, rispettavo le regole che approvavo (quasi tutte), quindi non avevo nemmeno modo di distinguermi in negativo. Però qualcuno subì angherie varie, tanto che spesso si rintanava nel reparto sartoria (gestito dai civili) insieme ad alcune donne.
Ricordo quello che, per la franchigia (la libera uscita all’esterno della caserma), si vestiva da femmina con tanto di gonna, scarpe con i tacchi e trucco sul viso. Poi c’era quello quasi gay, quello mezzo pazzo e qualche altro losco figuro che ora non rammento.
Tutte abili strategie per non farsi arruolare, ovvio. Per qualcuno funzionò, per qualcun altro no.

Partii per La Spezia con lo stretto indispensabile e il mio fidato coltellino svizzero alla MacGyver. Una volta varcato l’uscio della caserma venne sequestrato immediatamente e messo in cassaforte, all’interno della quale ne erano già stati depositati molti altri.
Per prima cosa mi venne assegnata una branda nella camerata con relativo armadietto già mezzo scassinato, poi mi diedero le istruzioni di rito: sveglia all’ora X, doccia all’ora Y, colazione fino all’ora Z e via dicendo. Niente di così allarmante, anche se da giovane ancora detestavo alzarmi troppo presto.
La prima mattina ci toccarono il rilievo delle impronte digitali, l’esame delle urine e tutte quelle cose lì (per “quelle cose lì” intendo che non ricordo più niente).
Andammo avanti in quel modo per tutta la giornata. Quando non era il proprio turno bisognava attendere in piedi in qualche corridoio, il che voleva dire trascorrere ore e ore in mutande e senza poter fare niente di niente, nella noia più assoluta. Il pomeriggio, per fortuna, ci concedettero la libera uscita.
Per quei soli tre giorni non ritenevo opportuno sforzarmi di socializzare con gli altri, così andai in giro da solo a esplorare la città e m’imbattei in una sala-giochi. Rientrai relativamente presto, anche perché non potevo di certo spendere tutti i pochi soldi che avevo nei videogiochi o per cenare fuori.

Il giorno dopo ci dedicammo ai vari test psicoattitudinali e del quoziente intellettivo, per svelare eventuali tendenze omosessuali, criminali e così via. Alcune domande erano veramente sceme: “Ti piacciono i fiori?” o “Hai mai ucciso qualcuno?”. Meno male che me l’hai chiesto, perché non vedevo l’ora di ammettere di aver commesso un omicidio.
Solita trafila tra una stanza e l’altra, ore che scorrevano lentamente, libera uscita. Furono tre giorni veramente all’insegna dell’inutilità più estrema.
All’uscita ripresi il mio coltellino svizzero, m’incamminai verso la stazione e diedi idealmente addio a La Spezia, rassegnato a doverci tornare prima o poi (anche se ci sarei ricapitato molto prima del previsto, in gita con la classe).
Giunse il momento di frequentare il nuovo anno scolastico. Bocciatura, arrivo della cartolina, rinvio presso la Capitaneria di porto, nuova iscrizione a scuola, nuova bocciatura, nuovo arrivo della cartolina.
E niente, mi toccò partire.

Venni assegnato al Terzo contingente, quindi sarei tornato a La Spezia nel marzo del 1996. Nel frattempo il servizio di leva presso la Marina Militare era stato dimezzato, quindi me la sarei cavata con un anno anziché due. Chiamasi botta di culo.
Dopo l’ultimo anno scolastico, ma prima di partire per il militare, trovai il tempo di iscrivermi in una palestra di arti marziali per praticare kickboxing, la variante americana del muay thai, ossia senza l’utilizzo di gomiti e ginocchia.
A quell’epoca ero un fan sfegatato di Ken il guerriero (Hokuto no ken, in originale) e di Jean-Claude Van Damme, quindi mi venne la voglia di imparare a prendere anche io le persone a calci in testa.
Ero pure appassionato di un anime giunto da un anno in Italia: Sailor Moon. Non sapevo ancora che avrebbe cambiato la mia vita.
Non avendo mai praticato alcuno sport, almeno a livello agonistico, ero non solo senza fiato dopo pochi metri di corsa, ma anche con i legamenti delle gambe elastici come barre d’acciaio.
Devo ammettere che, in confronto a come ero prima di iscrivermi in palestra, raggiunsi buoni livelli di forma fisica dopo appena un paio di mesi. Il sensei era molto competente e, sebbene non avesse gli occhi a mandorla come Miyagi, sapeva istruire gli allievi.
Col passare delle settimane riuscii a fare i giri di campo senza il fiatone, le gambe divennero sempre più flessibili e una karateka cintura gialla iniziò a farmi girare la testa (non in senso “marziale”).
Un giorno in sala pesi, discutendo del più e del meno con un amico, azzardai a esprimere qualche opinione a voce alta sulla ragazza in questione. Niente di troppo romantico, ma solo cose del tipo che me la sarei voluta fare, etc.
Non capivo perché quel mio amico mi lanciasse occhiatacce. In teoria avrebbe dovuto o incoraggiarmi o esprimere altrettanti pensieri lussuriosi.
Poco dopo, piegato dalle risate, mi spiegò che, insieme a noi in sala pesi, c’era anche lo zio della ragazza in questione. E dimmelo prima, cazzo!

Nonostante i progressi ottenuti fino a quel momento, ero spesso di cattivo umore perché avrei voluto arrivarci nell’arco di giorni e non di settimane. Sono sempre stato abbastanza impaziente. Dovevo sforzarmi spesso di resistere all’impulso di gettare i guantoni e tornarmene a casa con la coda tra le gambe.
Un giorno il sensei montò le corde del ring per farci esercitare nei combattimenti.
Dopo i penosissimi incontri di noi novellini il maestro oltrepassò le corde ed entrò nel ring per darci qualche dimostrazione. Oltre ai soliti calci in spaccata volante ci mostrò l’efficacia di un pugno diretto.
Mi misi in guardia con il guantone sinistro davanti al petto e il guantone destro davanti a quello sinistro. Avevo una consistente imbottitura a proteggermi dai colpi. Il sensei sferrò il pugno diretto. Per pochi secondi, che in quel momento mi parvero ore, il mio respiro si azzerò totalmente. Se la tensione del momento non avesse aumentato i battiti del mio cuore, avrei giurato che quel pugno mi avesse mandato in arresto cardiaco.
Quel pugno, in una situazione senza controllo, avrebbe potuto uccidere una persona. Neanche a distanza di anni ho dei dubbi, visto che lo ricordo ancora come una scarica elettrica.
In ogni caso quella dimostrazione di forza mi diede la motivazione per andare avanti, nonostante la mia palese insoddisfazione.

Nel tentativo di dare un’accelerata ai miei progressi mi esercitavo non solo in palestra, ma anche a casa. Acquistai un divaricatore per aumentare la flessibilità delle gambe, dei pesi di sabbia da 2 kg per braccia e gambe, delle molle per le mani e un libro sugli esercizi muscolari.
In palestra eseguivamo tre serie di flessioni, addominali e piegamenti; a casa facevo lo stesso, ma triplicando lo sforzo.
Tre serie da venti di addominali in palestra? A casa aumentavo a cinque serie da quaranta con in più uno zaino sulle spalle, all’interno del quale avevo inserito dei libri per avere una massa aggiuntiva. Ogni settimana, inoltre, aumentavo con una frequenza di cinque ogni serie.
Lo dico senza vantarmene perché intanto non me ne frega niente: per qualche mese riuscii a ottenere pure i tanto decantati addominali a tartaruga. Avevo vent’anni, quindi mi sembrava il minimo sindacale.
Se il militare non avesse interrotto i miei sforzi sarei riuscito a completare pure la spaccata. Mi mancavano appena un paio di centimetri per riuscire a toccare terra con le gambe divaricate.
E invece giunse marzo.

Partii nuovamente in direzione di La Spezia per il C.A.R. (Centro Addestramento Reclute): sarebbe stato un lunghissimo mese di visite mediche, test, marce, canti, spari, turni di pulizia e di guardia.
Un ragazzo della camerata riuscì a farsi dispensare spacciandosi per pazzo. Io non avevo alcun motivo per andarmene, così rispettai diligentemente il programma fino al giorno del giuramento. Sinceramente temevo di più la noia già vissuta durante i tre giorni di due anni prima, ma non ebbi veramente il tempo per pensare alle cazzate.
Quando non c’erano visite o test si marciava, si marciava e si marciava ancora. Si marciava anche durante le ore più calde e col sole a picco.
Inoltre, in previsione del giuramento, ci esercitammo per cantare l’Inno dei sommergibilisti.
Era sfiancante marciare con scarponi dalla suola durissima, seguire il passo di marcia, rispettare rigorosamente la distanza, andare costantemente a tempo (pena ricominciare dall’inizio). Però non era nemmeno così tragico, sebbene non mi andasse a genio fare qualcosa per dovere e non per piacere.
Il fine settimana tornavo a Genova in licenza, così ne approfittavo per guardare le puntate di Sailor Moon registrate da mia madre servendosi di accurate istruzioni.
Eravamo arrivati alla terza stagione: Sailor Moon S (da noi Sailor Moon e il Cristallo del cuore), indubbiamente la mia preferita perché stravedevo per Sailor Neptune e Sailor Uranus. Ma ero cotto di Tsukino Usagi, alias Bunny.

Più per prassi che per reale utilità, una mattina ci recammo al poligono di tiro di Massa, per esercitarci con il fucile MAB. Disponeva di due grilletti: l’anteriore per sparare in semiautomatico, il posteriore per sparare in automatico. La differenza?
Semiautomatico significa premere il grilletto e sparare un colpo singolo (utile se si vuole agire di precisione); per sparare il colpo successivo occorre rilasciare e premere nuovamente il grilletto. Automatico significa premere il grilletto e sparare a raffica (utile per colpire nel mucchio), fino a quando non si rilascia il grilletto o si svuota il caricatore.
Sebbene le mie doti da cecchino fossero già infallibili nei videogiochi, quel giorno non mi resi nemmeno conto di aver sparato: avevo confuso i grilletti e così, anziché mirare al bersaglio e sparare di precisione, dispersi tutte le munizioni in un’inutile raffica. Sembra una scemenza ma, quando non sei molto consapevole di avere una vera arma carica tra le mani, è difficile mantenere la concentrazione. Quella fu la prima e unica volta che imbracciai il MAB.
Riepiloghiamo: visite mediche, test psicoattitudinali, marce, canti, spari, turni di pulizia e di guardia.
Una volta mi toccò il turno di guardia notturno ai cameroni. Tutti a dormire e io sveglio senza niente da fare.
Un’altra volta, invece, saltai per sbaglio quello delle pulizie per il semplice motivo che non avevo controllato in tempo la bacheca con i turni esposti. Sarebbe potuto succedere a chiunque, no?
No, un corno: l’ufficiale di guardia era già pronto per spedirmi in consegna. Dicesi “in consegna” la recluta che viene punita per inosservanza delle regole o per altri motivi disciplinari.
Nel mio caso mi sarei giocato la licenza del fine settimana e avrebbe significato non poter guardare le nuove puntate di Sailor Moon. Non l’avrei mai permesso.
Con una faccia tosta mai più mostrata in vita mia andai dall’ufficiale, feci il saluto militare e gli dissi: “Io c’ero”. Rispose: “Ah sì? A posto così”.
Tsukino Usagi aspettami, sto tornando da te.

Dopo circa un mese di addestramento arrivò la fatidica data del giuramento.
Mi sono reso conto di non aver raccontato nulla delle nostre uscite serali di quei trenta giorni. Mettiamola così: tutte le ragazze spezzine erano prevenute nei confronti degli allupati maschi vestiti alla marinara. Sicuramente avevano le loro buone ragioni, visto che ogni mese cambiava il contingente e, di conseguenza, i militari da addestrare. Non è un caso che ai marinai venisse addossata la cattiva nomea di avere una donna in ogni porto. Io non ne avevo nemmeno mezza, ma acqua in bocca.
Io e gli altri tre del gruppetto riuscimmo a fare solo una misera foto con una ragazza fermata per strada. Probabilmente le eravamo apparsi così patetici che, mossa a compassione, la santa benefattrice volle donarci conforto con qualche secondo della propria presenza.
Non le chiedemmo il nome, non le offrimmo un gelato, non le facemmo compagnia per il resto della serata: la lasciammo andare e mai più la rivedemmo. Boh, a ripensarci ora rimango basito.
Tutte le molestie sessuali imparate a scuola con costante sacrificio, impegno e dedizione erano state buttate nel cesso. Tutto il mio latente potenziale di aspirante maniaco si era dissolto completamente quella notte: ero andato a La Spezia con l’intento di deflorare vagine vergini e invece…
E ora vi spiego il perché quella particolare serata andò a ramengo: mi trovavo meglio ad agire in solitaria, come un perfetto assassino ser… ehm, come un perfetto gentiluomo.
Al contrario di me e di pochi altri, il resto della caserma si consolava nella roulotte stabilmente parcheggiata dietro la caserma, all’interno della quale alloggiava una prostituta. Femmina o trans? Non mi è mai capitato di approfondire la questione, perché ho sempre evitato coma le peste il sesso a pagamento.

Il giorno del giuramento non cantammo l’Inno dei sommergibilisti, non so perché.
Tanta fatica sprecata. Oh, non sto dicendo che mi avrebbe fatto piacere cantare, ok?
Il medesimo giorno ci comunicarono le nostre destinazioni finali. Premetto che, in precedenza, avevo acconsentito a dare la mia disponibilità per essere imbarcato sull’Amerigo Vespucci come marinaio semplice, visto che senza diploma non avrei potuto aspirare a qualche ruolo più importante.
Invece, per motivi familiari (figlio unico di genitori divorziati legalmente), venni rispedito a Genova, per la precisione all’Istituto Idrografico della Marina Militare.
Avrei svolto la naja in caserma dal mattino presto fino al pomeriggio, poi sarei tornato a casa per il pernotto (concesso ai residenti) e per il fine settimana (tranne in caso di turno di guardia).
L’Istituto ricopriva un’area molto vasta con diversi edifici sparsi qua e là: portineria, alloggi, cucina e mensa marinai, alloggi, bar e mensa sottufficiali, alloggi, bar e mensa ufficiali, dispensa, officina, ambulatorio medico, alloggio indipendente direttore/ammiraglio, alloggio indipendente vicedirettore/ammiraglio, uffici, parcheggio, zona carico/scarico merci, discarica. A separare i vari ambienti c’erano strade, piazze, e scalinate.
Nei tanti uffici, vero cuore pulsante dell’Istituto, lavoravano sia civili sia militari, i quali si occupavano della cartografia e di altre questioni a me ignote. Era tutto parte di un unico ambiente impenetrabile dall’esterno.

I primi due/tre mesi trascorsero tra turni di pulizia dei bagni, delle gavette, delle pentole e dei cameroni. Pelare le patate, evidentemente, non si usava più.
Il tutto si svolgeva sotto la direzione di un capo di prima classe (il grado più alto tra i sottufficiali) che chiamarlo testa di cazzo sarebbe risultato un eufemismo.
Tanto per sintetizzare la sua bastardaggine: ti assegnava un compito e, dopo cinque minuti, ti rimproverava perché non ne avevi svolto un altro (che, a quanto pare, ti aveva comunicato telepaticamente). Mi faceva girare letteralmente i coglioni.
Una volta incrociai le braccia e proclamai lo sciopero. Avvertenza: i militari non possono proclamare lo sciopero, ancora meno se individuale. Mi consegnò per il fine settimana, quindi sarei dovuto rimanere in caserma dalla mattina di sabato fino al pomeriggio di Lunedì.
Il sabato di quella settimana rientrai in caserma per iniziare a scontare la mia pena detentiva. Niente cella d’isolamento, non pensate chissà cosa. Potevo girare liberamente per l’intero Istituto (anche perché non avevo alcun turno di guardia), ma mi era proibito uscire all’esterno.
Di guardia alla caserma – giorno e notte, feriali e festivi – c’era sempre un sottufficiale o un ufficiale, coadiuvato da un marinaio. Quel giorno il turno era toccato a un contrammiraglio, un uomo che aveva ampiamente dimostrato in precedenza di tenerci a noi marinai venendoci incontro quando avevamo problemi di varia natura.
Vedendo che non avevo turni da svolgere mi chiese cosa ci facessi lì. Gli raccontai la vicenda e mi spedì di corsa a casa. Il lunedì della settimana successiva venni convocato dal capo, il quale mi accusò di aver spifferato tutto al contrammiraglio. Ammisi di aver risposto solo alla domanda che mi era stata rivolta e la questione si chiuse lì.
Tra capo e contrammiraglio non c’era un buon rapporto, quindi poteva succedere che qualche marinaio finisse nel fuoco incrociato, ma io ormai potevo considerarmi con le spalle coperte.
Dopo circa un mese arrivò il momento della mia prima comandata. Dicesi “comandata” lavoro o attività da svolgere in squadra. Adesso capirete perché Sailor Moon è tanto importante per me ancora oggi.

La comandata in questione richiedeva di recarci nella piazza adibita alla raccolta dei rifiuti cartacei (in un posto riservato alla creazione di mappe navali se ne producevano parecchi), fare il passamano e caricare tutto all’interno di un camion, in modo che venissero poi trasportati in un centro di riciclaggio (o di rifiuti, non so).
In mezzi ai quei voluminosi pacchi notai una scatola da scarpe, all’interno della quale stavano riposando dei minuscoli gattini nati da un paio di settimane. La spostammo e, al termine della comandata, tornai a osservarli.
A comandare l’intero Istituto c’era un ammiraglio – nonché direttore – che alloggiava nella grande villa situata entro il perimetro dell’area militare. La figlia del direttore possedeva un gatto maschio che, con molto più coraggio di noi quando eravamo a La Spezia, s’era trovato una femmina e l’aveva ingravidata senza tante remore.
Nella scatola c’erano quattro o cinque cuccioli che stavano dormendo. Tutti, tranne uno. Avvicinai la mano per accarezzarlo e mi soffiò. Fu amore a prima vista.
Vista la passione per Sailor Moon (e la divisa alla marinara in comune) lo presi in braccio e lo portai a casa con me. Lungo il tragitto in autobus saliva spesso sulle spalle arrampicandosi sulla divisa. Meno male che non mi fece la pipì o la cacca addosso. Ogni tanto qualche gentile signora mi aiutava a sbrogliare quei piccoli artigli dal tessuto. Il micino suscitava l’ilarità dei passeggeri.
Non potevo immaginare che sarebbe diventato il primo di una lunga serie di gatti, quando ancora non ero nemmeno lontanamente né animalista né vegano né gattofilo/gattaro.
Il suo nome? Luna.

A quella comandata ne seguirono altre due: la prima nella villa del direttore, la seconda a Zoagli, località ligure poco distante da Genova.
Al direttore occorreva un nuovo armadio, così il nostro capo decise di sfruttarci per montare il nuovo acquisto e farsi bello ai suoi occhi (visto che non andava d’accordo con il contrammiraglio giocava la carta dell’ammiraglio).
Conobbi la figlia, una ragazza più o meno mia coetanea. Era abbastanza socievole ma, considerando il pericolo di “offendere” in qualche modo il padre, mi limitavo sempre a un saluto distaccato ogni volta che la incrociavo per strada. Diciamo che non era il caso di comportarsi da maniaco con lei.
Per la comandata a Zoagli ci addobbammo con la divisa bianca (quella estiva), per presenziare a un evento notturno dedicato alla Madonna del mare. In teoria, considerando che il giorno dopo mi sarebbe toccato il turno di guardia, avrei fatto meglio ad andare a dormire in caserma. Invece preferii recarmi lo stesso a casa.
Per arrivare puntuale in caserma ogni mattina dovevo alzarmi alle 4, pena il rischio di essere consegnati. Avendomi costretto la comandata a rincasare ben oltre la mezzanotte, dormii sì e no un paio d’ore. Per via del sonno arretrato mi svegliai molto più tardi del solito.
Preso dal panico mi preparai in fretta e furia e arrivai in caserma dopo l’orario previsto. Se avessi mantenuto la calma, però, mi sarei ricordato che la domenica l’ingresso era posticipato rispetto ai giorni feriali. Morale: anche se inconsapevolmente ero riuscito ad arrivare non solo in orario, ma addirittura in anticipo.

In realtà non credo che mi sarebbe successo qualcosa di grave anche se fossi arrivato tardi. Molti sottufficiali ci davano ben più che carta bianca sia in entrata sia in uscita, soprattutto nel fine settimana. Tuttavia la tolleranza variava da caso a caso, e a volte capitava quello più intransigente.
Durante il militare mai una volta arrivai in ritardo, né il giorno dopo la fatidica comandata e nemmeno durante il Capodanno 1996/1997 che vide abbattersi su Genova una bufera di neve.
Uno dei motti che preferisco è: meglio arrivare trenta minuti prima che un minuto dopo. Ci tengo a precisarlo, essendo molto pignolo con gli orari da rispettare.
Con gli orari sono sempre stato molto rigido, ma c’era una cosa che non mi andava proprio giù: rasare il viso tutte le mattine per non lasciare tracce di barba.
Decisi di sbattermene dei controlli e di tagliarla, al massimo, una volta alla settimana. Era un atto di ribellione che avrebbe comportato non solo la consegna, ma anche l’annullamento di pernotto e licenze in caso di recidiva. Il contrammiraglio stesso, quello amico di noi marinai, esigeva la pelle perfettamente liscia con tanto di tessera telefonica che faceva scorrere sui volti.
In quel caso sì che rischiavo sempre grosso, considerando che molte altre reclute venivano consegnate anche per molto meno. Per restare in tema: ho giocato sul filo del rasoio.

In quel periodo nacque ufficialmente la mia passione per i manga, sebbene già a La Spezia avessi acquistato qualche volumetto usato di Hokuto no ken, Maison Ikkoku e Saint Seiya (editi dalla defunta casa editrice Granata Press). Il mio primo numero di Dragon Ball diede vita alla mia futura collezione di manga, composta da oltre 4000 volumetti (ora tutti venduti da parecchi anni).
Fin da bambino sono sempre stato appassionato di anime, ma i manga arrivarono in Italia molto tempo dopo, almeno in un’edizione che rispecchiasse fedelmente quella originale. Col tempo scoprii le numerose censure che, nel corso degli anni, ci avevano propinato i vari adattatori della tv, il tutto per non turbare le candide anime dei pargoletti italiani.
Protagonista di Dragon Ball è Goku, un alieno appartenente alla razza combattiva dei saiyan, anche se è cresciuto sulla Terra. Il suo nome saiyan è Kakaroth.
Nel manga si trasforma per tre volte (escludendo le fasi di transizione): Super saiyan, Super saiyan II e Super saiyan III. Ho omesso di nominare il Super saiyan IV in quanto presente in Dragon Ball GT, serie animata non canonica.
Ci sarebbero anche altre trasformazioni introdotte in Dragon Ball Super (una serie che a me fa schifo perché rende i livelli di forza incoerenti) e Super Dragon Ball Heroes (serie animata che serve da traino all’omonimo videogioco, in cui si trovano tutte le incarnazioni presenti nel Dragonballverso).

Perfetto, ho perso completamente il filo del discorso. Che stavo dicendo? Qualcuno è arrivato veramente a leggere fino a qui?
Dopo quattro mesi di pulizie nei luoghi più impensabili venni spostato nel bar dei sottufficiali per servire loro caffè, alcolici e merendine. Quella mansione includeva anche il servizio mensa (solo a pranzo).
Rispetto al turno di guardia precedente c’erano più cose da fare e l’orario era leggermente più lungo (si usciva la sera anziché il pomeriggio), ma almeno mi ero levato dalle scatole il capo più insopportabile di tutti.
Ovviamente c’era il rovescio della medaglia: nei momenti di maggior affluenza bisognava servire una trentina di sottufficiali contemporaneamente. Sì che eravamo in tre a occuparci di bar e mensa, ma era comunque stressante.
Le portate per il pranzo erano contate, così un giorno si verificò un problema: si presentò in mensa uno dei capi di prima classe più anziani e influenti di tutti. Nessuno mi aveva avvisato preventivamente della sua esistenza, neanche quello stronzo del barista arrivato prima di me che, nel frattempo, era stato spostato in cucina perché rubava i soldi dalla cassa.
Quel capo lavorava alla Capitaneria di porto e non all’interno delle mura e così, quando si presentò in mensa per pranzare, gli risposi molto male. Non avevo ordinato ai cuochi una porzione per lui e, di certo, non potevo lasciare un altro sottufficiale senza mangiare. Si adirò non poco e se ne andò.
Per fortuna il capo del bar, al contrario di quello precedente, prese le mie parti e gli spiegò la situazione. Da quel momento ci assicurammo di prendere l’ordinazione per via telefonica e comunicarla alla cucina nei tempi e nei modi previsti.

Con la Capitaneria di porto non c’era una vera e propria collaborazione diretta, ma a poca distanza si trovavano gli uffici adibiti alla vendita dei prodotti realizzati all’Istituto.
Al di fuori delle mura di cinta della caserma partecipai a due eventi.
Il primo fu la regata The Cutty Sark Tall Ships’ Races, alla quale fu presente pure l’Amerigo Vespucci (veliero sul quale, in teoria, mi sarei dovuto imbarcare dopo il giuramento). Al secondo, invece, salii a bordo della portaerei Garibaldi, la nave ammiraglia della flotta della nostra Marina Militare prima del varo della Cavour; feci un giro sottocoperta e sul ponte di volo, dove potei ammirare gli Harrier, gli aerei da guerra a decollo verticale.
Essendo in tema aggiungo che pochi anni fa (molto dopo la fine del militare), provai l’ebbrezza della vita sottocoperta a bordo del sommergibile Nazario Sauro, situato stabilmente a Genova di fronte al Museo del Mare.
Se soffrite di claustrofobia non è una meta consigliata, perché i corridoi di passaggio sono molto angusti.

Nel bar dei sottufficiali, tutto sommato, non stavo male. A esclusione dei momenti di maggior affluenza, io e le altre due reclute eravamo tranquilli: guardavamo la tv, giocavamo a carte, mangiavamo “a scrocco” e leggevamo i manga.
Essendo io quello con maggior anzianità di servizio decidevo i turni, cercando sempre di non approfittarne troppo, visto che gli altri due ragazzi erano diventati miei amici.
I miei predecessori, provenienti dalle regioni del Sud, facevano gli stronzi pure tra loro. Del resto, il fatto che fossero stati spediti dalla Sicilia fino a Genova quale punizione disciplinare, già li qualificava.
Distribuivo equamente i “36” (fine settimana corto, cioè o sabato o domenica in libertà) e i “48” (fine settimana lungo, sia sabato sia domenica in libertà).
Arrivai alla fine della naja che ancora mi restavano giorni di licenza da utilizzare.
Avrei potuto smettere del tutto di svolgere gli ultimi turni, ma sarebbe stato pesante mandare avanti bar e mensa per due sole persone. Per fortuna, a un certo punto, ci assegnarono una burba. Dicesi “burba” la recluta tra le ultime arrivate che, per ragioni d’anzianità, non conta un cazzo.
In teoria iniziammo a gestire il bar in quattro, ma io ormai ero divenuto un fantasma. Dicesi “fantasma” la recluta che si sta avviando verso il congedo, quindi non vuole che gli si rompano i coglioni.

Rinviare la naja di un paio d’anni, causa frequentazione scolastica, non solo mi diede la possibilità di godere dei benefici della riduzione da due a un anno, ma venni arruolato proprio durante l’introduzione del precongedo.
In poche parole me ne andai via un mese prima, quindi a febbraio anziché a marzo. Alla fine svolsi meno di un anno di naja, da marzo 1996 a febbraio 1997.
Meno di un anno, ma sempre sprecato perché non mi sono serviti a niente. Non mi hanno nemmeno insegnato a sparare decentemente con il MAB (ammesso che si usi ancora).
Sprecato anche perché, poco dopo la fine della scuola e poco prima dell’arruolamento, avevo ricevuto una telefonata di lavoro da parte di Telecom. Forse sarebbe stato uno schifo, o forse avrei imparato qualcosa di utile.
A parte questi piccoli incidenti di percorso non mi posso nemmeno lamentare troppo: non sono partito in guerra, non sono stato distante da casa, non ho subito atti di nonnismo.
E ho conosciuto Luna. Quindi direi che ne è valsa la pena.

Vittorio Tatti