Fatale (parte 6 di 10+1)

Questo racconto è molto liberamente tratto dalla mia recente esperienza con la Musa; molto liberamente significa che è inventato al 90% e che rappresenta unicamente il mio punto di vista. Qualche paragrafo conterrà materiale VM18.

Parte 1 di 10+1
Parte 2 di 10+1
Parte 3 di 10+1
Parte 4 di 10+1
Parte 5 di 10+1

6

Mi. Piaci. Anche. Tu. Quattro semplici, elementari parole. Quattro stelle a comporre un’intera costellazione. Quattro parole per un nuovo segno zodiacale: Reberio (Rebecca più Valerio).
Quattro parole contro una lunga prosopopea atta a meravigliarti, a sedurti, a conquistarti, a possederti. Davide contro Golia, 300 spartani contro 7000 persiani.
Mi. Piaci. Anche. Tu. Come dire: ora mi appartieni, sei mio, ti ho legato a me, sei una mia proprietà, puoi respirare solo col mio permesso, non dovrai mai e poi mai azzardarti a guardare un’altra così come guardi me.
No, non lo farei mai amore mio.
“Ripetilo…”. “Mi piaci anche tu…”. “Ancora…”. “Mi piaci anche tu…”. “Non scriverlo di nuovo. Saresti disposta a dirmelo senza sosta nei giorni a venire, quando vivremo insieme, quando saremo un tutt’uno nel talamo nuziale, quando i nostri figli verranno a trovarci, quando baderemo ai nostri nipoti, quando invecchieremo e saremo finalmente certi che nessun’altra immonda tentazione potrà più frapporsi tra noi due, sgretolando la nostra vitale unione?”. “Mettimi alla prova…”. “Posso chiederti solo se tu e lui avete fatto…”. “No, non siamo mai andati oltre qualche bacio a stampo per le foto”.

Non l’avevate fatto! Non eri mai stata sua! Non ti eri mai svegliata al mattino e non eri mai andata a dormire pensando al suo sguardo come fosse stato l’alba e il tramonto della tua esistenza! Le sue mani non avevano lordato il tuo puro corpo! Non c’era mai stato un noi!
Non, e un altro non, e tanti altri meravigliosi, favolosi e commoventi non! Tu eri solo tu! Lui era… pfui! Meno dello sputo di un escremento! Tu e io! Noi! L’unico, vero, inimitabile!
Trovandoti tu dall’altra parte dello schermo non potevi vedere la mia pacata e composta reazione di esultanza. Pacata e composta come quella che poteva essere di un calciatore che segna il gol decisivo nella finale della Coppa del Mondo di calcio ed esegue capriole, piroette, salti carpiati e acrobazie circensi.
L’alluce del mio piede destro fu meno lieto nell’approcciarsi con vigore allo spigolo della scrivania, come conseguenza di un calcio volante che nemmeno nella boxe thailandese.
Il taglio dovuto a quel colpo fece uscire qualche goccia di sangue dal dito, ma la ferita si coagulò quasi all’istante. Così come fecero quelle del mio cuore. Sarebbero rimaste le cicatrici, ma non più il dolore.

[continua]

© Vittorio Tatti

Fatale (parte 5 di 10+1)

Questo racconto è molto liberamente tratto dalla mia recente esperienza con la Musa; molto liberamente significa che è inventato al 90% e che rappresenta unicamente il mio punto di vista. Qualche paragrafo conterrà materiale VM18.

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5

Il cuore mi batteva all’impazzata, tanto che credetti che mi sarebbe venuto un infarto o un ictus, o tutti e due insieme. Sarebbe stato il perfetto corollario del mio disagio. Il coroner, prima d’insaccare il mio corpo, avrebbe constatato il decesso per stupidità.
Mi aspettavo di leggere qualcosa di neutro, di amorfo. Invece: “Io non lo amo”.
Morii, letteralmente. E poi resuscitai e morii di nuovo. E ancora, almeno un miliardo di volte concentrate in un millisecondo. Pochi secondi prima avevo preannunciato, quasi invocato, la mia morte, ma non in quella maniera.
Avrei voluto risponderti subito, ma le mie mani tremavano così tanto che dovetti schiaffeggiarmi per recuperare un barlume di ragione. Ma la proverbiale stupidità, quella che ti ammanta quando sei così felice da non accorgerti nemmeno di andare a fuoco o di annegare, aveva annebbiato la mia mente. Risposi: “Ah, ok”.
Col senno di poi credo che una parte di me volesse punirti per avermi trattato con indifferenza nel blog. Oppure volevo punirti per essere stata con un altro. Oppure volevo punirti per punire me stesso, per essermi innamorato di te.
Cos’ero? Il rimpiazzo, la ruota di scorta, il salvagente per il tuo malessere interiore? Avevi bisogno di una spalla su cui piangere? Di due braccia che ti stringessero forte e ti consolassero? Di una coccola sussurrata al tuo orecchio?
Beh, da me non avresti ricevuto niente di tutto questo, mia cara. Mi sarei solo inginocchiato al tuo cospetto pregandoti, implorandoti di concedere a me l’onore di lenire il tuo dolore e guarire il tuo ferito cuore.
Onore, dolore, cuore: casuali rime d’amore.

“Pensavo t’importasse visto che mi tratti male da quando hai visto le mie foto su Instabook”, fu la tua piccata replica. Ti avevo colpita, e me ne rallegrai. Quindi non eri immune ai miei sentimenti, non eri una dea immortale senza emozioni. Te n’eri accorta.
Mentalmente venni assordato da un vortice di pensieri ossessivi che confermavano i tuoi sospetti. Avevi visto giusto, ma il mio orgoglio mi avrebbe impedito di rivelartelo. Eri stata accarezzata dalla graffiante mano della mia gelosia e volevi scoprire le carte.
Avevi dettato le regole e accettai di giocare. “M’importava…”. “T’importava? E ora non t’importa più?”. “…”.
Un bambino capriccioso e immaturo, ecco cosa mi aveva reso la sottile speranza che le tue acuminate parole avevano iniettato fin dentro il mio cuore. Temevo di assecondare prematuramente quella mano tesa verso di me, perché il fatto che non amassi il tuo sfrullattato non equivaleva a confessare l’eventuale amore provato per me.
E, se davvero non l’amavi, perché ci stavi insieme? Perché ti umiliavi pubblicando patetiche foto di voi due sorridenti, mano nella mano con le dita intrecciate, labbra sulle labbra ma almeno quelle senza sbavanti lingue a sfiorarsi?
Alla gelosia si aggiunse l’invidia. Diventare l’altra metà patetica delle tue foto mi avrebbe inorgoglito come un imperatore che conquistava nuove terre.
Con lui non dovevi fare niente. Con me dovevi fare tutto.

“Se non hai altro da dire ti saluto”. “No, aspetta…”. Fortunatamente riacquistai provvidenzialmente un po’ di lucidità mentale. Il film mentale che si era sviluppato nei miei pensieri era andato troppo avanti negli anni. Già ci immaginavo fidanzati, sposati, genitori. Ma avevi solo detto di non amarlo, non di volerlo lasciare. La pellicola del mio film romantico prese subitaneamente fuoco, e io con essa.
“Se non l’ami perché sembri così felice insieme a lui?”. Non finsi nemmeno più che non m’importasse, che non fossi geloso marcio. “Come dire… è una storia complicata…”. Esistono… anzi, no: sono mai esistite storie non complicate? “Ho tempo”.
Mi raccontasti della sceneggiata messa in atto per accontentare i vostri genitori, gente con una mentalità tribale che considerava del tutto normale organizzare matrimoni per convenienza senza interpellare le persone chiamate in causa. Mi raccontasti del vostro tentativo di svicolare da quell’impegno, di mettere alla prova i vostri sentimenti e capire se potesse sbocciare realmente l’amore. Mi raccontasti che tu e il tuo sfrullattato vi sareste ribellati a quel sopruso, a costo di tagliare i ponti con le reciproche famiglie.
Mentre leggevo quelle parole nella mia mente mi sostituivo, poco per volta, al tuo sfrullattato. Lo ritagliavo dalle vostre insulse foto di coppia e ne presi il posto per dare vita ai nostri deliziosi affreschi, che presto sarebbero stati incorniciati da cuoricini animati lasciati dai testimoni virtuali in visita nei profili di Rebecca e Valerio, decretata all’unanimità la coppia più bella e innamorata di Internet.
Senza più il damerino in mezzo sarei potuto uscire allo scoperto e mostrarmi pubblicamente come tuo unico e immortale amore.

“Ho capito… spero possiate risolvere il problema senza arrivare a tanto”. “Tutto qui?”. “Cosa vuoi dire?”. “La mia è stata solo un’impressione? Ho sbagliato a credere che ti piacessi?”.
No, dannazione! Perché non riuscivi a leggere tra le righe?! Cos’era quel tuo sadico piacere di strapparmi con la forza la verità?!
Rimanemmo in attesa nel silenzio più completo per cinque minuti, o forse secoli. Ricevetti un’illuminazione divina e scoprii che il tempo non era una grandezza fisica, ma un gioco dispettoso orchestrato da un maligno folletto spaziale per separare gli amanti.
Ogni tanto vedevo che digitavi qualcosa, ma poi cambiavi idea. Io non ero da meno. Chissà con quanta ansia attendevi la mia risposta… Attendevo che rompessi quel muro di ghiaccio sorto dal nulla. Attendevo che mi anticipassi, perché temevo di esprimermi per l’ennesima volta in modo acido, cinico, indifferente.
Capii che, con quel rancoroso tacere, mi stavo boicottando con le mie stesse mani. Mi riconducesti alla ragione: “No, evidentemente non ti piaccio, altrimenti non mi tratteresti come stai facendo”. “Scusa…”. “Non voglio le tue scuse”.

“Mi piaci, mi sei piaciuta fin da quando ho imparato a conoscerti attraverso le tue parole scritte. Con te ho dovuto ridefinire il concetto di amore. Tutte le cotte, le infatuazioni, le relazioni occasionali avute nella mia precedente vita, nella mia precedente personalità… Tutte quelle infantili sensazioni sono state appiattite, asfaltate, risucchiate da un buco nero e cancellate dall’esistenza. Ti desidero come un vagabondo in un arido deserto ansima con la brama di raggiungere al più presto un’oasi. Ti contemplo come se in te vedessi l’arcobaleno e l’aurora nello stesso istante. Il mio respiro è guidato dal tuo, speranzoso che le nostre labbra possano sfiorarsi, toccarsi, fondersi. Il mio cuore palpita, esulta, sobbalza, deflagra quando la tua attenzione è rivolta a me. E questa è solo un’insignificante premessa del lungo romanzo che vorrei fosse la nostra storia d’amore…”. “Mi piaci anche tu…”.

[continua]

© Vittorio Tatti