Superiore, ma non per forza migliore

Al termine della scuola media, avendo la passione dei computer fin dalla quasi tenera età, fu per me scontata la scelta di iscrivermi all’I.T.I.S. Italo Calvino. Il programma prevedeva che frequentassi il biennio col progetto sperimentale ABACUS e il successivo triennio informatico. Programma che, però, non tenne conto del mio odio viscerale per lo studio.
La scuola in sé non era male, anche se per raggiungerla dovevo prendere l’autobus.
Il complesso scolastico includeva un campetto da calcio, una pista per i 100 metri piani, una piscina comunale e un bar. Unica nota dolente: era quasi tutta in prevalenza frequentata da studenti maschi.

L’estate era finita da poco. All’epoca ero un tifoso sfegatato sia del Genoa sia dell’Italia, quindi non posso omettere i particolari sportivi di quel periodo.
Le “notti magiche” del Mondiale italiano ci avevano lasciato con l’amaro in bocca: l’Italia avrebbe potuto vincere tranquillamente la competizione se non ci fosse stata l’Argentina di Maradona, Caniggia e del portiere pararigori Goycochea.
La Nazionale, che fino a quel momento aveva giocato sempre a Roma (senza subire nemmeno un gol), proprio contro l’Argentina finì ironicamente a Napoli, città dell’idolo argentino.
Una vera beffa, soprattutto perché i napoletani obbedirono a sua maestà Maradona (indubbiamente uno dei migliori calciatori del mondo di tutti i tempi, ma anche uno dei più strafatti) e tifarono per la selezione sudamericana:
Ecco la formazione base dell’Italia: Zenga, Bergomi, De Agostini, Ancelotti, Ferri, Baresi, Donadoni, Berti, Vialli, Giannini, Schillaci.
Quell’anno il Genoa avrebbe disputato un campionato stellare, arrivando al quarto posto in Serie A (risultato ripetuto in seguito solo nella stagione 2009/2010) e classificandosi per l’UEFA.
Purtroppo nello stesso anno l’odiata Sampdoria vinse addirittura la scudetto, ma il Genoa si prese la soddisfazione di vincere un derby magico, grazie a una prodezza balistica di Branco.
La formazione di quel Genoa: Braglia, Torrente, Branco, Eranio, Caricola, Signorini, Ruotolo, Bortolazzi, Aguilera, Skuhravy, Onorati. Presidente: Spinelli. Allenatore: Bagnoli.

In UEFA il Genoa venne eliminato dall’Ajax in semifinale. Non so se sia vero quanto sto per dire, ma alcuni addetti ai lavori dicono che i giocatori persero apposta in quanto pretesero un adeguamento verso l’alto degli stipendi. Un peccato, viste le vibranti partite contro l’Oviedo e il Liverpool.
Sebbene il calcio ora non m’interessi più, è necessario capire quanto fosse importante per il me versione adolescente, visto che occupava gran parte dei miei pensieri.
Come tanti altri della mia generazione (e come Holly e Benji, Capitan Tsubasa in originale), anche io sognavo di diventare calciatore. I miei genitori non mi iscrissero mai in una squadra di calcio perché, a loro modo di vedere, avrei dovuto pensare a studiare.
Come penso di aver già dimostrato negli articoli precedenti, e come confermeranno le parole che leggerete, fare le cose per dovere e non piacere non mi motiva né mi spinge a ottenere grandi risultati. Non ero un fuoriclasse, ma me la cavavo alla grande e stavo pure migliorando. In ogni caso non mi fu data nemmeno la possibilità di provarci.
È un rimpianto? Col senno di poi direi di no, ma una parte di me non può non considerarlo tale.

Avendo cambiato casa durante il passaggio tra le medie e le superiori, persi di vista gli amici di strada con i quali giocavo a pallone. L’approdo alle superiori mi allontanò anche dal mio miglior amico dell’ultimo anno delle medie.
Iniziai a trascorrere sempre più ore in casa e sempre meno all’aperto, dedicando parte del tempo libero alla lettura dei romanzi di Stephen King. Divenni fanatico di due serie tv: MacGyver e I segreti di Twin Peaks. Mi pettinai come Dale Cooper, acquistai il libro autobiografico di quest’ultimo, un coltellino svizzero e un miniregistratore, che utilizzai per immortalare su nastro le mie giornate (ne parlo meglio in questo articolo).
Feci amicizia con un compagno di classe, ma durò il tempo di una stagione.
Tranne quando si parlava di calcio, con gli altri compagni non andavo molto d’accordo. Alcuni vennero comodi, però, come spacciatori di riviste e film porno.

Penso di aver dimenticato di accennarlo negli articoli precedenti: a scuola (elementari, medie e superiori) finivo sempre per essere uno dei più piccoli per statura. Mentre gli altri parevano già adulti navigati e consumati, io avevo ancora fattezze tutto sommato coerenti (e forse qualcosa di meno) con la mia età anagrafica.
In famiglia, presumo per una questione genetica, abbiamo sempre dimostrato meno anni di quelli riportati sulla carta d’identità. E io non facevo eccezione.
Tra il me eterno ragazzino (anche da un punto di vista mentale) e gli altri si creava spesso un solco invalicabile che rendeva problematica l’interazione sociale.
Non che me ne importasse qualcosa, sia chiaro.

Personalmente, fatta eccezione per la possibilità di disporre come meglio volevo del mio tempo, non ho mai avuto troppa fretta di crescere. L’avevo dimostrato più volte evitando di fumare e bere solo perché lo facevano gli altri. E ribadii il concetto quando, divenuto maggiorenne, non accennai minimamente alla volontà di conseguire la patente di guida per l’auto.
Il bello è che i miei genitori si lamentavano pure: dovevo stare in casa per studiare, ma sarei anche dovuto uscire come tutte le persone “normali”. Forse sarebbe stato meglio se avessi iniziato a farmi le canne e a rubare le marmitte dei motorini, come facevano quei finti adulti?
Iscrivermi a una squadra di calcio mi avrebbe, o forse no, consentito di rimanere discretamente socievole (pur senza gli eccessi di chi andava in discoteca e si comportava da teppista), invece mi isolai sempre di più con la tv e il computer per le inevitabili differenze di vedute tra me e molti miei coetanei che non vedevano l’ora di emanciparsi dalla famiglia.
Per fortuna nemmeno in giovane età avevo l’interesse di adeguarmi al branco, quindi i miei genitori si scontrarono con la mia proverbiale testardaggine e, malgrado tutto, furono costretti a issare bandiera bianca.
Almeno posso dire che la mia vita da nerd (casalingo e solitario, non un finto nerd moderno e socievole) fu una scelta voluta e che non rimpiango nemmeno a decenni di distanza.

Essendo già pratico di computer scelsi liberamente d’iscrivermi all’I.T.I.S.
Il primo anno fu un vero disastro, perché non riuscii ad ambientarmi a quei ritmi così sostenuti e forsennati. Alcuni professori, poi, erano dei veri idioti, soprattutto quello di fisica (delle particelle, non ginnastica) che ripeteva in continuazione “Dio koala”. Credeva di essere simpatico? Non lo so. Forse sono io ingiusto, perché lo vedevo con gli occhi di uno studente che odiava la scuola.
Il periodo coincise con la sperimentazione del biennio ABACUS. Essendo sperimentale, appunto, quel biennio ora è come se fosse finito nel cesso, almeno da un punto di vista formativo.
Nella classe accanto c’erano un paio di ragazze con le quali io e un mio compagno di classe avevamo stretto amicizia. Essendo troppo concentrato sull’aspetto esteriore, credo di aver perso l’occasione di stringere un legame più profondo e maturo con quella più bassa delle due. Ma io, in senso sentimentale, non ero ancora maturo. Rimpianto, perché era carina e simpatica.
Complice l’approssimarsi della Guerra del Golfo, approfittavo delle solite manifestazioni studentesche per fare “sciopero” almeno una volta alla settimana.
Invece di aggregarmi ai pacifisti tornavo a casa, guardavo la tv, giocavo al computer oppure, se ero solo, tiravo fuori dal doppio fondo del mio cassetto qualche pornazzo.
A volte non andavo a scuola nemmeno il pomeriggio (altra insopportabile differenza rispetto alle elementari e alle medie), solo perché non ne avevo voglia.
Tante assenze + impegno zero = bocciatura assicurata. Ripetei l’anno.

Il nuovo biennio andò meglio; due bocciature alle spalle (seconda media e prima superiore) significavano essere più grande di due anni degli altri studenti.
Nuovi compagni di classe e nuovi professori, tranne l’insegnante d’inglese che rimase la stessa.
Ora penserete nuovamente male di me, ma avrei tanto voluto fare sesso con lei. Mi arrapava come poche, ancora più della prof di educazione fisica delle medie.
Una mattina come tante, durante il cambio dell’ora, la prof mi si avvicinò e mi accarezzò la guancia. E, senza scendere nei particolari, non rimasi indifferente.
Sicuramente l’aveva fatto senza alcun secondo fine, visto che poi non successe di nuovo. Ammetto che in quel momento, se mi avesse chiesto di seguirla nei bagni degli insegnanti o anche altrove, ci sarei andato molto volentieri.
Devo nuovamente tirare in ballo l’argomento sessuale, anche se lo trovate antipatico. Ma non voglio tralasciare nulla.
So che ero minorenne, so che forse la prof sarebbe finita nei guai e io sarei stato visto come una vittima manipolata, so che in quel contesto ogni approccio fisico è tuttora considerato reato. Ma ricordo perfettamente quello che provavo, inclusa la mia intenzione di avere rapporti sessuali con lei. Non mi sarebbe mai venuto in mente di sposarla, ma di fare sesso sì.
Voglio davvero provare a capire: ero io quello strano? Coraggio, dite la vostra senza filtri.
In ogni caso aggiungo anche questo alla lista dei rimpianti: non aver osato di più con la prof.

Il biennio significò tanto anche da un punto di vista, diciamo così, letterario.
Il prof d’italiano e storia ebbe il merito d’inculcarmi a forza, anche a suon di pugni sulle spalle, quelle regole grammaticali che adesso mi consentono di scrivere almeno in maniera accettabile.
Ricordo con terrore i bigliettini contenenti alcuni estratti de “I promessi sposi” e l’estrazione per decidere chi interrogare. Cazzo, quanto odiavo quel romanzo di merda… Credo di detestarlo ancora adesso per uno sorta di timore reverenziale. Eppure è presente per scelta nella mia libreria personale e, un giorno o l’altro, giungeremo alla resa dei conti. Non ti temo più, Alessandro “ti venisse la peste” Manzoni.
Un giorno venni interrogato e presi un’insufficienza, così me ne andai dall’aula incazzato nero, ma non prima di aver assestato un bel calcio a banco e sedia. Risultato: convocazione dei genitori e solita morale che bisognava impegnarsi e le solite belinate sul dovere scolastico sciorinate a mamma e papà.
“Verba volant, scripta manent”, disse il prof a proposito di interrogazioni e compiti in classe, come a suggerirmi di prestare maggiore attenzione allo scritto.
Nei temi andavo bene, senza falsa modestia: fantasia a iosa (che ho ulteriormente sviluppato) e disciplina grammaticale soddisfacente (attualmente aspiro a diventare il più nazi dei grammar nazi). Di sicuro non potevo prevedere che, un giorno, le avrei rivalutate così tanto.
Non posso esserne certo, ma credo che se mi fossi impegnato di più (o se avessi scelto addirittura un indirizzo di studi diverso), adesso riuscirei a scrivere come un vero letterato. Ma anche no, perché se fosse stato un obbligo avrei odiato scrivere.
Non lo inserisco tra i rimpianti, perché un “se avessi…” non è sinonimo di azione diretta e consapevole.

Pur andando d’accordo con i compagni di classe, non feci amicizia con qualcuno in particolare. Entrai comunque nel giro dei videogiochi piratati, comportamento che mi spinse ancora di più nel mondo virtuale.
Stravedevo per Beverly Hills 90210, per le tette di Kelly e per le pettinature di Brandon e Dylan (ogni giorno ne avevo una diversa). Comprai e lessi anche tutti i romanzi pubblicati, ma presumo che non dovrei sbandierarlo ai quattro venti come se fosse motivo di vanto.
Durante l’ultimo anno del biennio registrai anche i voti più alti in assoluto: 8 in disegno tecnico (rispetto al disegno a mano libera mi permetteva più precisione) e fisica (delle particelle, non ginnastica). L’8 in fisica, tra l’altro, arrivò a causa di una risposta sbagliata dovuta a un ripensamento, altrimenti avrei preso 9. Piccolo rimpianto anche questo, ma di poco conto.
Pur volendo fare sesso con la prof d’inglese, la materia che insegnava non era di mio gradimento (e nemmeno ora). In effetti non mi spiego come, pur ottenendo sempre scarsissimi risultati, me la cavai sempre senza essere rimandato. No, giuro che non ci sono andato a letto.
È pur vero che, in previsione di un compito in classe decisivo, pagai una ragazza universitaria per tradurre per me il testo che avrei poi ricopiato senza tanto pudore. Lei guadagnò 20000 lire e io un 7 che mi consentì di vivere di rendita e arrivare a fine anno con due materie da recuperare (tra le quali l’odiosa matematica, ma non inglese).

Ora mi viene da pensare questo: andando meglio nelle materie scientifiche rispetto a quelle informatiche, forse avrei dovuto puntare sul liceo scientifico? Oppure, tenendo conto del valore che ha adesso la scrittura per me, sarebbe stato meglio il liceo classico?
Col senno di poi non si ottiene niente, e ho pure la sensazione che, per com’ero e come vivevo il periodo scolastico, ogni scelta effettuata si sarebbe rivelata ugualmente fallimentare da un punto di vista dell’impegno e dei risultati ottenuti.
Ho sempre provato questa forte ritrosia nei confronti del dovere. Non delle regole, attenzione: alcune le approvo e le seguo alla lettera.
Ma il dovere… l’essermi scontrato con un percorso di vita già prestabilito (nasci, studia, lavora, muori)… l’obbligo di essere l’ingranaggio di un meccanismo chiamato società…
Siamo individui pensanti o una (stupida) mente alveare?

Pur con qualche piccolo problema arrivai alla fine del biennio e al bivio decisivo: scegliere il triennio elettronico o informatico? Senza alcun dubbio optai per quest’ultimo per un ragionamento fallace: preferivo usare i computer anziché costruirli.
Non l’avessi mai fatto…
Non avete idea di quanto rosicai quando vidi quelle ragazze gnocche dell’indirizzo elettronico. Sedicenni porche, arrapate e, chissà come mai, pure secchione.
Va bene che ero un nerd che, almeno in teoria, avrebbe smanettato con i computer per lavoro, ma gli istinti primari non potevano essere soffocati dalla passione. Mussa batte computer 100-0. Io avevo scommesso sulla squadra perdente. Fanculo.
Stando al racconto di un ex compagno di classe del biennio una di loro faceva lavori di mano per 10000 lire e di bocca per 20000 lire.
Mi direte: “Non potevi pagare come tutti gli altri?”. No, il principio di pagare per ricevere gratificazione sessuale non mi è mai andato a genio. O si fa per piacere mio e suo oppure niente.
Meno male che c’erano le studentesse dell’alberghiero…

Il primo anno del triennio ritrovai un compagno del primo anno delle superiori, con il quale avrei fatto amicizia grazie alla passione per i videogiochi. Con lui ci recavamo ogni tanto da uno spacciatore di videogiochi piratati (un genio, visto che aveva anche un negozio che poi è fallito…) che, secondo me, con quella scusa attirava ragazzini a casa propria. Fosse stato almeno una donna…
Il prof d’informatica era una vera sagoma: cervello indubbiamente sopraffino (giocava a scacchi mentalmente, dormiva due ore per notte etc.), ma pieno di divertentissimi tic nervosi. Io mi sganasciavo letteralmente dalle risate e, pur essendo nel primo banco, beccava sempre gli altri a ridere.
A volte cambiavo l’espressione da “lacrime agli occhi” a “imperturbabile” in due secondi netti; quel talento nascosto mi valse l’appellativo di double face. Purtroppo, poco prima della fine dell’anno, il prof mi beccò quell’unica volta e persi la mia imbattibilità.
Questo lo inserisco tra i rimpianti frivoli.
Il prof d’italiano, pelato, invidiava la mia folta chioma. Un giorno me lo disse chiaro e tondo: “Quando ti guardo patisco”.
Quell’anno mi divertii davvero molto: compagni di classe scemi al mio stesso livello e, soprattutto, maggiore età e firma sul libretto delle giustificazioni.
Tradotto: libertà assoluta.

Per mantenere fede a miei solidi ideali di ribellione studiai ancora meno che negli anni precedenti, complice anche un nuovo trasloco (sempre nello stesso quartiere) e la successiva separazione dei miei genitori.
Le bagasce del triennio elettronico continuarono a rimanere irraggiungibili per noi nerd sfigati, ma ci consolammo con le zoccolette del già citato alberghiero, che erano davvero niente male.
Grazie alla maggiore età potevo anche scegliere in totale autonomia quando non andare a scuola. Tecnicamente non marinavo, perché io stesso potevo giustificare la mia assenza; tuttavia, trovandomi comunque bene in quella classe, la frequenza rimase inaspettatamente alta fino alla fine. In questo articolo racconto nel dettaglio la mia strategia per le assenze.
L’impegno, invece, era nullo, zero, assente, nemmeno ai minimi termini; ormai ero senza controllo. E questo lo metto tra i rimpianti, perché avrei potuto trascorrere altri due anni scolastici in un ambiente gradevole.

Un giorno andammo in gita a La Spezia ma, per non so quale problema, la classe rimase indietro, così salii sul treno senza di loro.
Non c’erano i cellulari, quindi non potevo contattare nessuno. Arrivai a La Spezia, controllai l’orario dei treni e andai a spasso da solo per un’ora circa.
Conoscevo già la città avendo pernottato mesi prima per i tre giorni di visita d’idoneità al servizio di leva, quindi passeggiai senza pormi tanti problemi.
Tornai in stazione giusto in tempo per assistere all’appello della classe nella piazza; mi videro arrivare con perfetta nonchalance, mentre slinguazzavo un gelato gusto fragola/puffo (più o meno era rossoblu, i colori ufficiali del Genoa).
Venni cazziato di brutto dal prof di elettronica, ma cos’avrei dovuto fare? Attendere in stazione come un ebete?
Nel corso della giornata io e altri quattro compagni di classe ci staccammo dal gruppo e percorremmo le Cinque Terre a piedi e in perfetta armonia con la natura.
C’eravamo integrati così tanto che, per poco, uno di noi non cadde in una scarpata, salvandosi solo grazie a una foglia (nel senso che si aggrappò a un ramoscello e la foglia sostenne tutta la sua massa corporea).
Percorremmo la Via dell’amore e arrivammo in stazione con il resto della classe già lì in attesa. Nuova cazziata del prof, che ormai mi aveva preso di mira.

Ricordate il ragazzo che stava per cadere nella scarpata? Un giorno finì davvero all’ospedale.
Con la classe eravamo andati al cinema per vedere Schindler’s list; al termine del film andammo a mangiare tutti in un ristorante.
Io, quel ragazzo e un altro gruppetto ci sedemmo attorno a un tavolo e qualcuno ordinò un po’ di bottiglie del vino Lancers. Premetto che anche gli altri, essendo già stati segati in precedenza, erano maggiorenni, quindi non c’era alcun problema a ordinare alcolici (certo, il prof avrebbe potuto comunque evitarlo).
Io mi limitai ad assaggiarlo e poi stop, mentre facemmo letteralmente ubriacare il nostro compagno. Credo che si scolò, come minimo, almeno due litri di vino.
A un certo punto si alzò, barcollò fino alla cassa e vomitò l’impensabile, il tutto di fronte a un’atterrita cameriera che avrebbe dovuto pulire. Dopo pochi minuti venne l’ambulanza per portarlo in ospedale. Mi telefonò a casa la sera di quel giorno, bello arzillo e pimpante.
La fine di quell’anno scolastico arrivò decisamente troppo in fretta. Giunse, come si può intuire, anche l’ennesima bocciatura.

Decisi, a malavoglia, di iscrivermi nuovamente (più per rimandare il militare che per altro…).
La sfiga mi colpì nuovamente, perché venni assegnato alla sezione diversa da quella dell’anno precedente: nell’altra vennero inserite delle studentesse decisamente arrapanti. Imprecazioni a iosa. Prima l’indirizzo sbagliato, poi la sezione sbagliata.
Ormai demoralizzato decisi che avrei fatto trascorrere l’anno senza fare letteralmente niente.
Essendo più grande (aggiungete tre anni) di buona parte dei miei nuovi compagni, si manifestarono un distacco e un’indifferenza niente male.
Ritrovai la mia adorata prof d’inglese (cambiata il primo anno del triennio) e una prof d’italiano niente male. Nei confronti della prima avevo ormai perso interesse, mentre la seconda mi consentì almeno di esercitare la mia fantasia (non sessuale, smettetela di pensare sempre male di me).
Fare i compiti era divenuto un concetto astratto ma, evidentemente, nessuno l’aveva ancora capito. Comunque, non so se per darmi ancora fiducia o per farmi fare una figuraccia (ma non credo), una mattina la prof m’invitò alla cattedra per leggere di fronte alla classe il tema che avrei dovuto svolgere a casa.
Andai alla cattedra con il quadernone e l’aprii: tutte le pagine erano immacolate, visto che non lo utilizzavo più da mesi. Quell’inutile e insensata interrogazione m’irritò al punto tale che, anziché riconoscere la mia colpa e togliermi il pensiero, accettai la sfida e decisi d’improvvisare il tema seduta stante.
Feci finta di leggere ma, complice l’inclinazione del quadernone, scrissi il tema seguendo l’ispirazione del momento. Alla fine aprii gli anelli, tolsi il foglio e lasciai il tema in bella vista sulla cattedra. E presi pure un bel voto. Tiè!

Ovviamente quella fatica non servì proprio a un bel niente. Verso la fine dell’anno si potevano contare più settimane d’assenza che di frequenza.
Il mio ex compagno di classe (quello che si era ubriacato) divenne la mia talpa: tramite una fitta rete di contatti, all’uscita da scuola mi aggiornava su eventuali comportamenti anomali dei prof. In qualche modo, una volta tornato a casa, dovevo mantenere un atteggiamento coerente con una mattinata trascorsa in aula.
Andavo a imboscarmi in giro per Genova (solitamente nei vicoli) oppure in un parco con villetta poco distante da scuola. Ogni tanto beccavo qualche vecchio compagno di classe, ogni tanto rimanevo da solo e ogni tanto andavo alla ricerca di ragazze dell’alberghiero.
Stavo così tanto fuori che, al rientro a casa, mi gettavo a capofitto sul computer, come se sentissi la necessità di tornare nel mio vero mondo: quello virtuale. Non lo era ancora ufficialmente, ma lo sarebbe diventato.
Chiaramente arrivò l’ennesima bocciatura: la terza alle superiori, la quarta complessivamente. Fine definitiva del mio ciclo di studi.

Bene, questo era quello che volevano i miei genitori: che rinunciassi alla mia passione per il calcio per dare priorità allo studio. Spero siano soddisfatti.
Di cosa parlerò la prossima volta? Indizio: M. M.
Però pubblicherò l’articolo lunedì, visto che avete l’inusitata abitudine di trascorrere la domenica all’aperto e in mezzo alla gente. Contenti voi…

Vittorio Tatti

In medio stat virtus, ma non in questo caso

La scuola media nella quale andavo si chiamava Alessandro Volta. Era leggermente più lontana di quella elementare, ma situata nel medesimo quartiere. Disponeva di un solo ingresso che consisteva in una lunga e ripida salita.
Essendo stato bocciato in seconda fui costretto a ripetere un anno, quindi descriverò gli eventi in due fasi: prima e seconda sezione, seconda e terza sezione. Prima di parlare della scuola, però, mi concederò una digressione per presentarvi una panoramica generale su quel periodo (che include anche gli anni delle elementari).

Gli Anni ’80 facevano parte della decade cosiddetta mitica, anche se, obiettivamente, non credo proprio fosse tanto migliore di quella attuale. Ero ancora giovane e relativamente spensierato, quindi la soggettività aveva contribuito a far apparire tutto più bello di quanto fosse in realtà.
I computer (Commodore 64, MSX, Sinclair ZX Spectrum, Apple Macintosh, Atari ST) e le console (Nintendo Entertainment System, SEGA Master System, Atari 7800) erano già nelle nostre case da tempo, anche se ancora non avevano catturato tutta la nostra attenzione.
Ci beccammo gli esordi di pietre miliari della storia del cinema: Ritorno al futuro, Wargames, Terminator, Rambo, L’attimo fuggente, Ghostbusters, La mosca, Nightmare, La Storia infinita, Robocop e così via.
In contemporanea si svolsero due Mondiali di calcio: nel 1982 vinti dall’Italia di Paolo Rossi, nel 1986 vinti dall’Argentina di Maradona.
Non ci facemmo mancare nemmeno un simpaticissimo disastro nucleare in quel di Chernobyl. Tanto per evidenziarne la tragicità: il nocciolo continuerà a emettere radiazioni anche quando noi umani saremo già estinti da tempo.
Prima di quel momento, chi sapeva dove fosse l’Ucraina? Forse qualcuno non lo sa nemmeno ora, altrimenti i carri armati russi non avrebbero sbagliato strada per rientrare alla base. Sono sarcastico, eh…
Eh sì, sono stati veramente mitici quegli anni.
Fine della digressione.

Noi adolescenti eravamo giovani, educati, gentili e innocenti. O forse no, non lo eravamo. Cioè… sì, eravamo giovani, ma innocenti proprio per niente. Capirete, capirete…
Primo anno di scuola media, primi problemi (ma quando mai non ci sono stati?): bisognava studiare “sul serio”, non come alle elementari. Certo, come no.
In classe ritrovai alcuni compagni delle elementari, ma la maggior parte erano nuovi. All’inizio mi apparvero quasi come alieni da studiare in laboratorio, sebbene fossimo tutti coetanei. In realtà alcuni sembravano quasi diciottenni, quindi da lì il mio scetticismo sulla possibilità di adattarmi in mezzo a quella fauna.
M’innamorai quasi subito di una compagna di classe. Lei se ne accorse ancora prima di me e, da quel momento, iniziò ad approfittarne in maniera ignobile e spregiudicata (ma decisamente piacevole): in cambio di bacini&bacetti a distanza le cedevo parte della merenda (patatine o focaccia più succo di frutta) da mangiare durante la ricreazione. Io ero un debole, ma lei era inconfutabilmente una zoccola.
Sì, a 11 anni si atteggiava già come una troia da competizione: viso carino al naturale ma sempre truccata in maniera pesante, abiti casti ma che risaltavano le forme, tette in fase di sviluppo, culo sodo, voce flebile, vocabolario tutt’altro che forbito. Davanti ai prof, ovviamente, faceva la santarellina.

Qua si rende necessaria una premessa personale per contestualizzare e comprendere meglio il mio punto di vista.
All’inizio delle medie non ero esattamente “vergine”: diciamo che non avevo fatto proprio tutto, ma qualcosa avevo comunque già fatto, quindi ero già al corrente di cosa si nascondesse dietro certi atteggiamenti lascivi e, soprattutto, cosa avrebbe comportato il livello successivo.
L’aspirante mignotta si atteggiava così con me e col mio compagno di banco, mentre con quello che le piaceva davvero era molto più timida e distaccata. Giusto il tempo di conoscersi meglio che, dopo aver notato l’efficacia della strategia persuasiva, le si affiancò un’altra ragazzina: bacini&bacetti anche dalla complice, metà rimanente della merenda a quell’altra. Caratterialmente troia anch’ella, meno bella esteticamente ma fisico molto più sviluppato: sembrava già una sedicenne.
Gli ormoni non erano a mille, ma a centomila, quindi penso di avere qualche scusante. Nella mia mente gli amori infantili delle elementari erano ormai stati rimpiazzati e rimossi definitivamente da quelle due ancelle.
In realtà, per dovere di completezza, ne dovrei citare anche una terza che non faceva parte delle conoscenze scolastiche, ma di quelle della via dove abitavo e con le quali giocavo a pallone e andavo al catechismo (altro obbligo insopportabile).
Quest’ultima, tuttavia, aveva l’innata capacità di non considerarmi minimamente (nemmeno per scherzo), proprio come se non fossi mai stato fisicamente presente.

In classe con noi c’era anche il classico bullo che, per via della morte del padre, credeva di avere il diritto di comportarsi male con tutti. Per questo ringraziamo anche la complicità del comparto docenti che cercava di “comprenderlo” anziché spedirlo a Guantanamo.
Quel ragazzino disturbava continuamente durante la lezione, marinava per intere settimane, entrava in classe e se ne andava quando voleva, rubava e via dicendo; era pure molto manesco, sia con noi che con i prof. Da quel teppistello subii qualche schiaffone e un calcione.
Personalmente non sono mai stato attaccabrighe, ma quando mi giravano male mi veniva lo schizzo e reagivo. Avete presente i film con Bud Spencer e Terence Hill? Una volta ci scambiammo una serie consecutiva di schiaffi – e parlo di ceffoni ben assestati – come Bud e Terence; alla fine fui io a cedere perché, se fosse stato per lui, non avremmo finito più (e poi, detto tra noi, la guancia aveva iniziato pure a farmi discretamente male).
Il mio calcione, sfortunatamente, venne intercettato dallo stinco di un altro compagno (il solito rompicoglioni pacifista diplomatico sempre pronto a essere amico di tutti) intento a dividerci, altrimenti l’avrei castrato. Con la conseguenza di aizzarlo ancora di più contro di me, posso ipotizzare.
Noi volevamo solo starcene in pace, e invece ‘sto demente doveva a tutti i costi infastidirci perché si annoiava e perché tutto gli era concesso.
Non-violenza gandhiana? Ma fatemi il piacere. Per me poteva pure morire tra atroci sofferenze.

Altri compagni di classe vivevano difficili situazioni familiari, ma nessuno di loro si azzardava a mancare di rispetto agli altri.
Ogni volta che i prof preferivano non mettere il guinzaglio al teppista (praticamente sempre), lui iniziava a girare per la classe indisturbato, intento a escogitare nuovi modi per rompere le palle a noialtri. Peccato che fosse molesto anche in altre circostanze, soprattutto quando poteva dare sfogo ai propri istinti primitivi.
Lombroso l’avrebbe etichettato come un esemplare ancora in vita di neanderthal, perché aveva fattezze scimmiesche. Mi scusino le scimmie per l’ignobile paragone.
Educazione fisica (ginnastica) si svolgeva sempre in compagnia di un’altra classe, forse perché non c’erano abbastanza professori o forse per non perdere troppo tempo.
Quella classe era composta da ragazzini che sembravano trentenni anche nell’aspetto; erano dei veri delinquenti, e ovviamente a chi toccò sopportarli durante le due ore settimanali di ginnastica? Indovinato: al sottoscritto.
Quelle ora diventavano drammatiche nel vero senso della parola, anche perché il prof veniva brutalmente picchiato ogni volta. Era mia convinzione che, prima o poi, ci sarebbe scappato anche il morto.
Il “nostro” teppista, in presenza dell’altra classe e semmai ce ne fosse stato bisogno, tirava fuori il peggio di sé: fumava, si bucava con la siringa, appoggiava quella specie di pene sul banco e si masturbava, bestemmiava, danneggiava l’aula e, come accennato prima, picchiava il prof tirandogli addosso sedie e prendendolo a pugni e calci.
Chi era più tranquillo doveva necessariamente ridere e mostrare entusiasmo per tali “prodezze”, altrimenti sarebbe stato preso di mira a sua volta.

Tra i miei compagni c’erano alcuni ragazzini con una personalità già solida e dominante e, pur non essendo nemmeno mai stati sfiorati dal teppista (altrimenti l’avrebbero sbriciolato), neanche loro osavano proferire parola in presenza degli idioti dell’altra classe.
Comunque la storia non finiva di certo lì. All’uscita da scuola vedevamo spesso il prof ricevere calci e pugni da quei criminali in erba. A volte lo seguivano anche sull’autobus, evidentemente non soddisfatti delle già fin troppo affettuose attenzioni riservate nei suoi confronti.
La politica della scuola fu quella di promuoverli a prescindere, in modo da levarseli di torno il prima possibile. Per me potevano e dovevano finire in galera senza attenuanti e senza alcun tentativo di recuperarli: andavano repressi con la forza e lasciati marcire in gabbia.
Torniamo alla parte didattica della scuola.

Sintetizzo: primo anno superato, ma con difficoltà; secondo anno non superato, pur lo stesso con qualche difficoltà.
Causa scarsissimo impegno, problemi di salute e contrattempi vari, decisero di bocciarmi. Il teppista, come da pronostico, venne promosso e tanti saluti. Meglio così, almeno a scuola mi levai di torno un problema non di poco conto (anche se quel demente continuava a imperversare nel quartiere).
Dovetti dire addio alle due compagne che mi piacevano, ma anche lì poco male perché, nel corso dei mesi, si stancarono di bacini&bacetti corruttori dati a caso e si accoppiarono con i rispettivi fidanzatini.
Iniziai il nuovo anno scolastico con tutti gli occhi puntati addosso: in quanto ripetente (insieme a un altro) venivo osservato come un animale raro. Non nego che approfittai un po’ di quella situazione: facevo l’altezzoso e, pur non raggiungendo i livelli del teppista, anche il prepotente.
Comunque quell’atteggiamento di finta superiorità non durò molto, perché la mia attenzione venne catturata dalle nuove presenze femminili e mi diedi ben presto una regolata. Inoltre, essendo ripetente, non potevo permettermi una nuova bocciatura, che evitai “a modo mio”.
Oltre ai compagni cambiarono anche alcuni prof. La mia mascella cadde rovinosamente al suolo quando vidi per la prima volta la nuova prof d’educazione fisica: una donna con un corpo da favola e una minigonna nera che lasciava ben poco all’immaginazione. Pareva una pornostar.
Quando la lezione si teneva in piscina anziché in palestra, poi, andavo in brodo di giuggiole, perché vedevo non solo la prof in costume da bagno, ma anche le mie compagne (ancora solo dodicenni, ma cavolo se erano attraenti…).

In quel periodo studiavo solo lo stretto indispensabile (a volte lo sguardo era fermo sui libri, ma la testa completamente altrove), preferendo dedicare parte del mio tempo al C64, ai cartoni animati e al calcio giocato in strada.
Ricordo molto bene il fastidio che davamo ai negozianti, i quali avevano paura che qualche pallonata mandasse in frantumi le vetrine; qualche volta si litigava anche in maniera pesante.
Come ogni altro mio coetaneo maschio, anche io collezionavo le figurine Panini. Giocavamo spesso a scambiare i doppioni oppure a vincere interi mazzi dell’avversario utilizzando come valore di riferimento il numero della figurina. Era prassi comune attaccare quelle più importanti nelle pagine del diario scolastico, affiancandole alle spettacolari e grottesche Sgorbions.
Un giorno incollai storta una figurina. Dal momento che non mi andava di lasciarla in quello stato, cercai di staccarla senza bucare la pagina del diario. Con mio sommo stupore mi accorsi che veniva via più facilmente del previsto. Non sapevo se fosse merito della colla poco adesiva o della carta ruvida del diario, ma quella particolarità mi sarebbe tornata molto utile.
Ricordate quando ho accennato che avrei evitato la bocciatura “a modo mio”?
Studiare non mi piaceva, nel modo più assoluto. Niente di nuovo.
Quando ero a casa trascorrevo ore e ore sui libri ma, in realtà, fantasticavo su cose che non avevano nulla a che fare con la scuola. Era più il tempo dedicato a inventare qualche stratagemma per non studiare che allo studio vero e proprio.
Un giorno la prof mi beccò senza compiti, così scrisse una nota sul diario da far firmare ai miei genitori. Mi scervellai per trovare una scusa convincente per quella nota, ma non ne ebbi bisogno.

Durante la ricreazione feci un esperimento sul diario: scrissi una piccola parte del testo di una canzone in una delle pagine del periodo estivo (che non mi sarebbero servite), poi attaccai le figurine sopra, chiusi il diario e lo lasciai così per un’ora.
Al termine della lezione, in attesa dell’arrivo della prof, esaminai la pagina: le figurine si staccavano senza sbavare l’inchiostro e senza bucare la carta; si poteva fare.
Presi delle figurine nuove e le incollai sulla nota, mentre nello spazio restante della pagina scrissi i compiti assegnati. Tornai a casa fingendo di avere la coscienza pulita.
Rimaneva da sistemare solo una cosa: la firma.
Con quella me la cavai senza alcun inconveniente: tolsi le figurine dalla nota, appoggiai una giustificazione firmata in precedenza dai miei genitori e calcai le firme con una penna esaurita. In seguito abbozzai la traccia invisibile con una matita, la ricalcai con la penna nera, cancellai le sbavature della matita e ricoprii tutto con le stesse figurine.
Il giorno dopo mostrai la nota firmata alla prof e la questione si chiuse lì. Avevo rischiato grosso ma, per evitare una sicura punizione, ne valse sicuramente la pena.
Quel sistema mi diede fin troppa fiducia nella possibilità di farla sempre franca.
Applicai quel metodo almeno ad altre cinque o sei note, ma all’orizzonte si profilò un pericolo che mi avrebbe fatto sudare freddo: convocazione dei genitori con rischio di sospensione.
Il pericolo non risiedeva solo nella convocazione in sé, ma anche nella tutt’altro che remota possibilità di smascherare tutte le precedenti note nascoste sotto le figurine.
Come si dice in questi casi? Ah sì: ero fottuto.

Mi avrebbero sicuramente sgamato se non si fosse verificata una provvidenziale botta di culo. Scusate il francesismo, ma quando ci vuole ci vuole. Non rammento tutti i dettagli della vicenda e non voglio ricamarci sopra, quindi scriverò quello che ricordo.
In qualche modo riuscii a convincere un ragazzo più grande (forse il cugino o il fratello di un mio compagno di classe, ma non non ci metterei la mano nel fuoco) a scrivere una giustificazione spacciandosi per i miei genitori, i quali si scusavano per l’impossibilità di potersi presentare alla convocazione per motivi di lavoro (mio padre) e di salute (mia madre). La firmai e la nascosi temporaneamente sotto le figurine, pronto a mostrarla alla prof due giorni dopo (data dei colloqui tra insegnanti e genitori).
Ero ormai già rassegnato ad assistere alla mia condanna a morte. Pensavo continuamente: “La prof scriverà una nuova convocazione e mi beccheranno”. Ripetete con me: “La prof scriverà una nuova convocazione e mi beccheranno”.
Di nuovo: “La prof scriverà una nuova convocazione e mi beccheranno”.
“La prof scriverà una nuova convocazione e mi beccheranno”.
Quel pensiero mi stava ossessionando. Il mio inganno non poteva funzionare. Ero destinato a fallire miseramente: avrei pagato un conto salato per la mia avventatezza e scontato la giusta punizione per la mia irresponsabilità.
Invece… La fortuna aiuta gli audaci e, a quanto pare, anche gli imbroglioni.
Quella poveretta della prof (non l’ho detto prima, ma era già abbastanza anziana e carente di vista) abboccò senza dubitare minimamente di quella giustificazione. A dire il vero ebbi addirittura la sensazione che si fosse sentita pure un po’ a disagio per aver arrecato disturbo ai miei genitori con quella convocazione.
Livello di senso di colpa: zero. Pentimento? Non fatemi ridere.
Inutile nasconderlo: quell’anno arrivai alla promozione sicuramente non per meriti scolastici. Forse avrei fatto meglio a coltivare il mio talento nascosto di falsario.
Ma sono ancora in tempo…

Giunse finalmente il terzo anno, l’ultimo delle medie. Promisi a me stesso che avrei studiato di più (di più, non tanto), anche perché difficilmente mi sarebbe stato concesso di barare all’esame finale.
Complice un trasloco, in classe giunse un nuovo compagno che, in seguito, sarebbe diventato il mio migliore amico, almeno fino al distacco dovuto al passaggio alle superiori. Complice la natura, invece, le compagne diventarono delle vere e proprie delizie sessuali, soprattutto tre di loro.
I nostri ormoni erano ormai ben oltre qualsiasi possibilità di contenimento, tanto che iniziammo a provarci senza pudore, prima solo con battute sconce, poi con azioni sempre più avventate e temerarie.
Ci concentrammo su quella che aveva dimostrato di apprezzare le “premure” maschili e che sembrava volersela tirare. Per preservarne l’identità la chiamerò Miss tette d’oro.
Pur essendo ancora solo una tredicenne aveva due tette da paura, un culo da favola e una… Mettiamola così: i jeans erano così stretti che non solo risaltava la linea posteriore, ma anche quella anteriore. Chi ha capito ha capito.
Ricordo bene che, durante l’intervallo, aveva l’abitudine di sedersi a novanta gradi, in modo da essere “presa” da dietro. Non posso dire con certezza quanta sincera malizia ci fosse dietro tale atteggiamento, anche perché nessuno di noi si faceva tanti scrupoli morali.
A volte ci permetteva di accarezzarla solo con la mano, altre volte accettava le spinte con le parti basse. Era davvero estasiante affondare in quella soffice materia organica.
Chiaramente non poteva mancare assolutamente la palpata al seno, altrimenti si sarebbe potuta offendere.
Tra Miss tette d’oro e altre compagne di classe e di scuola (ripetenti) riuscii a “colmare i buchi” (ehm…) che ancora mancavano alla mia esperienza sessuale.

Arrivai al punto di prendermi eccessive libertà, dando per scontata – e addirittura doverosa – la loro disponibilità. Invece, dopo tante insistenti attenzioni (da parte di tutti), il negozio chiuse i battenti perché sembrava consapevole di essersi fatta una pessima nomea. Ricevette solidarietà femminile solo da un’altra compagna (chiamiamola Miss tette d’argento), perché le altre l’avevano presa in totale antipatia a causa delle attenzioni che riceveva da maschi.
Per un po’ la lasciammo quietare e, quando la situazione tornò normale, abbandonammo ogni velleità d’appagamento fisico. Nel frattempo io e il mio amico avevamo iniziato a prendere di mira una di quelle invidiose di Miss tette d’oro.
Con il cervello completamente inebetito e impossibilitato a ragionare in maniera lucida e razionale (non azzardo a dire matura), un giorno mi avvicinai a lei per palparle le tette, assolutamente convinto che me l’avrebbe permesso senza fiatare.
Della serie: “Io sì che sono un figo da paura”.
Mi mollò uno schiaffo così forte da far sembrare quelli del teppista delle amorevoli carezze; il mio occhio iniziò pure a lacrimare, tanta fu la forza impressa a quella manata. Imbarazzata e rossa dalla vergogna si scusò come se fosse stata lei la vera colpevole.
Imparai la lezione: dopo il colpo ricevuto le restai per sempre a distanza di sicurezza.

Prima che vada avanti concedetemi una piccola riflessione.
Giudichiamo negativamente la generazione attuale, propinando al vento i soliti retorici discorsi del tipo che noi non eravamo così, che avevamo dei valori, etc.
Beh, è un’immonda cazzata.
Non è vero che non eravamo come i giovani d’oggi: anche noi eravamo così e, a volte, anche peggio, solo che non potevano collegarci a Internet per sbandierarlo al mondo intero. I panni sporchi rimanevano in famiglia o nel quartiere nel quale si abitava.
Oggi ci sono teppisti, ai miei tempi c’erano teppisti e sicuramente c’erano teppisti pure secoli fa. Forse si potrebbe obiettare sulla libertà sessuale concessa di generazione in generazione, ma non ci giurerei.
Se avessi avuto lo smartphone non so cosa avrei combinato. Quasi certamente mi sarei cacciato in qualche guaio, anche perché non mi sarei posto vincoli morali né nei confronti della prof di educazione fisica né delle mie compagne di scuola.
Anche adesso si giudica negativamente un approccio intimo consensuale tra un/una quattordicenne e una/un prof. Sarò io ad avere una morale distorta, ma personalmente non ci vedo niente di così anormale fin quando si tratta di puro sfogo sessuale e non di una relazione sentimentale a lungo termine (per il sesso bastano gli ormoni ed è una pura questione biologia, ma per l’amore ci vogliono almeno maturità, esperienza, condivisione e obiettivi comuni).

Se all’epoca ci avessi provato con la mia prof di educazione fisica cosa sarebbe successo? L’avrebbe riferito ai miei genitori o avrebbe assecondato le mie pulsioni? Oppure sarebbe finita in croce perché avrebbero considerato inammissibile che un quattordicenne potesse trovare attraente una MILF e avrebbero dato per scontato la molestia da parte sua?
Voi vedetela come volete, ma a me sembra che un po’ tutta la società sia ancora troppo bacchettona e ipocrita. In un mondo dove i figli si concepiscono in laboratorio per soddisfare l’ego delle coppie gay e si cambia sesso a seconda del proprio umore, mi sembra ridicolo che si pongano ancora veti morali sulla nostra natura riproduttiva e libertà sessuale.
Se avete voglia di dire la vostra su questo argomento esprimetevi pure liberamente, intanto è solo per discutere.

Il terzo anno trascorse, tutto sommato, in maniera spensierata anche da un punto di vista didattico.
La mia tecnica delle figurine aveva ormai raggiunto livelli da decimo dan, tanto che qualcuno arrivò anche a copiarmi. Avevo dato vita a una nuova forma d’arte che purtroppo non ha fruttato quanto avrebbe dovuto.
Non sempre mi sono comportato bene, ma spesso mi sono comportato meglio di tanti altri. Diciamo che sono stato nella media, proprio io che non sopporto le vie di mezzo.
Sono stati quattro anni all’insegna dell’impazienza di crescere, di poter disporre di maggiore libertà, di sperare che i momenti brutti non tornassero più e che quelli belli non finissero mai.
Della scuola media ricordo anche un’altra cosa. Ogni anno scolastico veniva selezionato un libro di narrativa da leggere nel corso dei mesi e svolgere compiti per casa legati all’analisi dei vari capitoli. Non sono sicuro se capitò in seconda o in terza, ma quell’anno venne scelto per la lettura “I ragazzi della via Pal”.
Viste le già troppe materie da studiare non comunicai mai ai miei genitori la necessità di acquistare tale libro, così ne feci a meno per tutta la durata dell’anno scolastico.
Andai avanti a forza di superficiali copiature dagli altri compagni di classe, alcune delle quali mi procurarono un paio di quelle famose note divenute medaglie al valore.
In pratica avevo messo in preventivo la possibilità di compensare il brutto voto e la nota con la solita firma falsa. Al cambio credevo di averci guadagnato, soprattutto in termini di tempo.
Ma credo che adesso, non avendo più alcun obbligo di leggere per studiare (i libri che leggo in biblioteca e che poi consiglio non contano), potrei finalmente compensare quella lacuna.

Vittorio Tatti

Scuola elementare

La scuola elementare nella quale andavo si chiamava Domenico Ferrero. Aveva due ingressi: uno lato giardini pubblici (con tanto di scivoli e altalene), l’altro lato cortile che dava sulla strada.
Ricordo che la scuola in generale non mi è mai piaciuta molto, perché detestavo l’obbligo di dover studiare. Se mi andava (e mi andava spesso) sfogliavo i libri dell’anno scolastico appena iniziato per conto mio, anche in punti che avremmo affrontato più in là nel tempo.
Spaziare a seconda del mio umore era piacevole, ma quando il programma ci metteva di fronte argomenti anche da me apprezzati, iniziavo a detestarli.

Non mi piaceva studiare, ma in realtà nemmeno impegnarmi in qualcosa. Se mi riusciva perché sì bene, altrimenti avrei lasciato perdere senza tanti complimenti.
Alle elementari odiavo soprattutto storia e matematica. Alcuni miei compagni sguazzavano nei numeri e nelle date, mentre io provavo nei loro confronti una modesta avversione.
Mi prendevo la rivincita un po’ in geografia, ma andavo veramente bene solo quando si trattava di leggere e scrivere (anche se avevo una pessima grafia); quando altri cincischiavano nei periodi la mia lettura scorreva fluida, almeno come poteva esserlo quella di un bambino delle elementari.
Anche a casa mi piaceva leggere, però non scrivevo.

Il primo anno di scuola conobbi anche il primo amore con un nome e un volto (la bambina dell’asilo, ormai, è e rimarrà per sempre anonima): Beatrice. Orecchie a sventola, occhi tra l’azzurro e il grigio, sorriso radioso, temperamento burrascoso; morì nel 2001, a causa di una reazione allergica.
Il nostro primo incontro dopo le elementari avvenne parecchi anni dopo, quando acquistai il mio primo cellulare (un Nokia 5110), proprio nel negozio dove ancora lavorava qualche mese prima del tragico evento.

Come ho già candidamente ammesso la scuola non mi piaceva, tranne quando arrivava il momento di uscire per tornare a casa.
Ogni Mercoledì mi attendeva il nuovo numero di Topolino, mentre il pomeriggio era dedicato allo studio forzato, al gioco e alla televisione. A farla da padrona, in tv, c’erano i Puffi, i Masters of the universe, Mazinga, Jeeg e Goldrake, senza dimenticare il programma contenitore per eccellenza: Bim Bum Bam. In Italia era appena giunta la prima vera invasione di anime, ma già s’intravedeva qualche censura e/o adattamento arbitrario.
A quell’epoca la prima serata iniziava alle 20:30 (bei tempi…), con la mezz’ora prima dedicata ai cartoni animati.
Non rammento l’anno preciso, ma fu in quel periodo che vidi per la prima volta il mio film horror preferito: L’esorcista. Il film venne anticipato da Georgie (l’anime) e ricordo che già solo il trailer mi spaventò non poco; quindi, ovviamente, non potevo non guardarlo.
Adesso devo divagare un attimo con un argomento già trattato in un altro articolo, ma lo inserisco anche qua perché parte integrante del periodo scolastico.

Sebbene ora sia ateo agnostico, da bambino ero “costretto” a credere in Dio, anche a causa delle varie usanze di andare a messa la domenica mattina, fare catechismo etc.
Probabilmente una parte di me ci credeva ancora veramente e, di conseguenza, doveva credere anche nell’esistenza di Satana; un giorno, tanto per averne la conferma, provai a evocarlo (Satana, non Dio). In un’angoliera del salotto c’era una Bibbia; facendo finta di giocare la presi, la strinsi tra le mani e, guardandola, pronunciai queste testuali parole: “Satana, ci sei?”.
Un paio di secondi dopo la persiana della finestra del salotto sbatté di colpo contro la finestra; un colpo di vento casuale ovviamente, ma bastò a spaventarmi. Il buon senso mi avrebbe dovuto convincere a non tentare nuovamente quella specie di pratica evocativa; logicamente, non soddisfatto del risultato, ci riprovai qualche giorno dopo (evidentemente sono sempre stato un po’ “provocatore”): non successe niente, ahimè.
Il mio sogno era stato infranto e, in un certo senso, ci rimasi veramente male, perché avrei voluto chiedere a Satana di procurarmi un sacco di giocattoli in cambio delle anime dei miei cugini; praticamente l’avevo scambiato per il mio genio della lampada personale.

Ebbi la prova che Satana non esisteva o che, in ogni caso, non aveva tempo da dedicare a me; lo stesso impietoso giudizio toccò inevitabilmente anche a Dio, sebbene riservai il diritto di rivalutare la mia opinione in caso di bisogno. Pregavo più per opportunismo che per fede: quando le preghiere non sortivano l’effetto voluto, smettevo di credere.
In quel periodo smisi anche di credere a Babbo Natale, più che altro perché una sera beccai mio padre mettere il regalo sotto l’albero; della serie: non facciamoci sgamare.
Sempre a proposito di pratiche demoniche, una cugina più grande di me aveva la mania di giocare con un’imitazione della tavola ouija.
Non davo per scontato a priori che fosse tutto falso, ma giustamente pretendevo qualche conferma che ne attestasse la credibilità; cosa che, come potete immaginare, non arrivò mai.
Vabbè, in fondo anche lei era giovane, tanto che andava matta per Luis Miguel (quello di Noi, ragazzi di oggi).
Ok, chiudo la parentesi demoniaca.

In casa avevo una piccola riproduzione di una tenda indiana regalata da una mia zia; divenne la mia tana, il mio rifugio.
Avevo anche un tavolino-banco, con tanto di sedile reclinabile e abaco, sul quale mi mettevo a leggere Topolino, un dizionario così consumato da essere diviso in due parti, un atlante geografico e un libro su vari argomenti scientifici.
La letteratura non m’interessava, ma andavo matto per le enciclopedie. La cugina citata sopra aveva Conoscere. Ogni volta che andavo a casa di mia zia prendevo un volume a caso e lo leggevo con grande interesse.
Se consultare quell’enciclopedia avesse fatto parte del programma scolastico credo che non l’avrei più trovata molto interessante.

Anche da bambino ero curioso, tanto che uno dei miei motti era: vediamo cosa succede se…
Premessa: qualche volta rimanevo da solo in casa senza sorveglianza, soprattutto quando mio padre lavorava di notte (quindi la mattina dormiva) e mia madre usciva per fare la spesa.
Mi piaceva smontare le cose per vedere com’erano fatto all’interno e cosa le faceva funzionare. Il più delle volte poi erano da buttare, perché non sapevo come rimontarle.
Un giorno vidi la cicca di una sigaretta nel posacenere: la presi, la odorai e la rimisi dov’era, avendo l’accortezza di rimetterci della cenere sopra in modo che nessuno si accorgesse che l’avevo presa. Credo che l’odore mi disgustò non poco, perché in vita mia non ho mai provato neanche la più piccola tentazione di fumare.
Torniamo a scuola, luogo dove saltuariamente ero costretto a studiare; a volte, preso dalla noia, cercavo un modo per distrarmi tra una materia e l’altra.

Dalla terza elementare in poi “sostituii” nei miei pensieri Beatrice con Elisa (una nuova arrivata), sebbene la prima fosse ancora la mia compagna di banco; praticamente l’avevo mentalmente tradita con un’altra.
Iniziarono a formarsi le prime coppie ed Elisa si mise insieme a un altro, con mio grande rammarico. Beatrice era ancora libera, però non m’interessava più molto.
Comunque non penso che avrei combinato granché. Da un punto di vista sentimentale ero parecchio indietro rispetto ai miei coetanei (e lo sarei rimasto per molti anni ancora).
Però avrei sfidato chiunque di loro a conoscere meglio di me l’anatomia del corpo femminile. Non penso che anche i miei compagni di classe si alzassero clandestinamente di notte per guardare in tv gli spogliarelli. La tipa in tv si trastullava quasi sempre rimanendo appoggiata su un fianco. Le poche volte che allargava le gambe cercavo di imprimere nella mia mente la forma dell’oggetto del desiderio.
I miei compagni di classe avranno pure avuto le fidanzatine (con le quali, per ovvie ragioni, non facevano niente), ma io avevo già visto parecchie vagine adulte. Tiè.

Con un tale chiamato Francesco scambiavamo le figurine dei calciatori e le sorpresine del Mulino Bianco. Avevo anche la valigetta per raccogliere le piccole scatolette.
Un giorno fregai Francesco alla grande, anche se non per cattiveria. Io gli diedi un tegolino (la gomma da cancellare, non la merendina) e lui un baiocchi; la mia gomma era doppia, mentre la sua era un pezzo unico.
Poco dopo, durante la ricreazione, barattai il baiocchi con un altra gomma perché mi accorsi che era brutto (c’era troppo finto cioccolato).
Il problema arrivò quando Francesco mi chiese di annullare il nostro scambio, in quanto si era pentito di aver ceduto qualcosa che gli piaceva. Non sapendo cosa rispondere mentii spudoratamente: gli dissi che mi piaceva così tanto che avevo intenzione di tenerlo. Forse fraintese quelle parole e le scambiò per un’ammissione di reciproca amicizia fraterna, così confermò lo scambio e non chiese più indietro il baiocchi.

Con lui mi divertivo anche a progettare camper. Disegnavamo prima una bozza, in seguito “convertivamo” tutto in un progetto scritto che ne riassumeva le caratteristiche.
Anche in quel periodo adoravo gli ambienti chiusi, claustrofobici e autonomi dal mondo esterno, così feci in modo che i gas di scarico del camper venissero riciclati e convertiti in benzina per non costringermi a fermarmi e scendere ogni volta per fare il pieno.
Il camper era diventato una sorta di bozzolo nel quale isolarmi dal mondo esterno. Prime avvisaglie della misantropia?

Ho condensato cinque anni in poche righe, sebbene la scuola sia stata solo accennata.
In realtà non è che ricordi poi molto di quegli anni, se non solo vaghi frammenti scollegati tra loro; forse non sono stati vissuti con grande intensità?
In ogni caso è passato parecchio tempo, quindi credo di avere qualche alibi.
Ma una cosa la ricordo molto bene: odiavo tanto, veramente tanto studiare per dovere.

Vittorio Tatti