Un po’ di me, l’alieno

Meglio una mente chiusa e solida, anziché una aperta e piena di falle.
Non significa non poter mai cambiare idea (anche perché, volubile come sono, mi succede pure da un minuto all’altro), ma solo credere al 100% nelle proprie convinzioni.
Quando sono convinto di qualcosa non ho la necessità di trovare un compromesso con un’opinione diversa dalla mia, a meno che quest’ultima non confuti la mia in maniera del tutto spontanea e senza lacune.

Odio le vie di mezzo.
Solo bianco e nero per me. In nessun caso sono intenzionato a cedere a compromessi: se non posso avere tutto, preferisco non avere niente; comunque preferirei avere tutto, logicamente.
Non parlo di cose materiali, ma di ideali astratti, concetti e convinzioni.
Ritengo le sfumature inutilmente dispersive e disorientanti. Molto meglio un’etichetta da apporre a ogni pensiero, in modo da poterlo catalogare, riconoscere, condividere o evitare.

Conta la destinazione, non il viaggio.
Un viaggio, anche metaforico, ha l’obiettivo primario di portarci da un punto A a un punto B nel minor tempo possibile e, ancora meglio, in linea retta.
Poco mi importa delle deviazioni lungo il percorso, anzi: spesso mi spazientiscono ancora di più; semmai ben vengano le scorciatoie.
Qualcuno potrebbe obiettare che, una volta giunto a destinazione, potrei non godermela pienamente; in quel caso mi basta cambiare obiettivo e trovare una nuova fonte di stimoli.

Ho bisogno di un amore intenso.
La maggior parte delle persone tende ad accontentarsi di una tiepida e insapore relazione serena, che non provochi eccessivi scossoni emotivi; l’assenza di dolore, tuttavia, non implica automaticamente la presenza della felicità.
Personalmente sento la necessità di estremizzare le emozioni derivanti da un rapporto intimo, di renderle folgoranti, ardenti e consumanti, altrimenti non riesco a percepirne la presenza né a dar loro un senso.

Vittorio Tatti

Isola di carta

Il poeta John Donne diceva che nessun uomo è un’isola, ma le aspiranti Michela Murgia in ascolto non abbiano da temere: sono abbastanza sicuro che Donne intendesse dire essere umano, non uomo che domina la donna da una patriarcale posizione di potere.
Personalmente, andando però ad alterare il significato della citazione, la vedo in maniera diametralmente opposta.
Adesso parlerò di un’isola, anticipando che servirà unicamente da esempio per introdurre l’argomento vero e proprio. Non è il caso di avvertirvi che l’articolo sarà discretamente lungo.

Quanti di noi sarebbero in grado di sopravvivere su un’isola deserta, escludendo qualsiasi possibilità di ricevere soccorsi? Possiamo provare a immaginarlo.
Prima di tutto, anche se penso sia superfluo spiegarlo, va ricordato che un’isola è un lembo di terra che emerge dalle profondità del mare o dell’oceano; non è una zattera che galleggia alla deriva spostandosi seguendo la corrente.
Nel nostro caso ipotizziamo che si tratti di un’isola dal clima tropicale e ricca di vegetazione. Siamo naufragati su questa bella isoletta lontana da ogni rotta commerciale. Non è vulcanica, o meglio: non presenta alcuna attività vulcanica. Diciamo che è estesa una decina di chilometri quadrati. Esiste da qualche millennio, quindi si è sviluppata una lussureggiante vegetazione.
Non è mai stata raggiunta da alcun essere umano oltre a noi, e questo significa che non sono nemmeno stati introdotti animali. Intorno a essa sicuramente nuotano tanti pesci e alcuni volatili la usano saltuariamente per nidificare. Ma non sono presenti animali terrestri, che tradotto vuol dire nessun pericolo di essere sbranati da un giaguaro o punti o morsi da un ragno o un serpente velenoso.
Ce la giochiamo facile, intanto andremo incontro ad altre difficoltà.

Isola tropicale significa clima umido, quindi tanto sole e caldo, ma anche abbondanti piogge.
Non avremo problemi a procurarci acqua potabile, a patto di riuscire a raccoglierne e conservarne abbastanza tenendo conto dell’evaporazione. Nell’isola non sono presenti né laghetti né stagni né ruscelli. Diventa indispensabile modellare delle grosse foglie di palma da adibire a scodelle. Non potendo prevedere con assoluta certezza quando pioverà, suggerisco di preparare qualche alambicco solare. Uno solo raccoglierebbe solo poche gocce d’acqua al giorno, quindi meglio distribuirne qualche decina qua e là.
Come detto non ci sono animali. Io non li caccerei, ma qualcuno di voi sarebbe stato tentato di farlo. Non pescherei nemmeno, quindi niente pesci da mangiare.
Diciamo che ci va discretamente bene e troviamo qualche albero e pianta con frutta tropicale: cocco, ananas, mango, papaya e banane.
Non so se su un’isola di quel tipo crescerebbero anche frutti selvatici come more e lamponi. Penso che qualche bacca si possa trovare, ma come capire se è commestibile o velenosa? Onestamente non saprei riconoscerle. Se ne assaggiassimo metà di una rischieremmo al massimo un mal di pancia o basterebbe a ucciderci?
Penso che, per forza di cose, ci dovremo accontentare della frutta conosciuta. L’importante è ricordare di non mangiarne più di quanta ne cresca ogni tot mesi.
Non escluderei di trovare semi negli escrementi dei volatili, ma occorrerebbero comunque mesi per ottenere qualcosa da un eventuale raccolto. Inoltre come verrebbe concimato? Nel terreno di un’isola tropicale ci sarebbero lombrichi indispensabili per il compostaggio?
Passiamo oltre.

Ci servirà un riparo, no?
Con un po’ di fortuna troviamo un anfratto tra le rocce, più che altro da utilizzare quando arriva la stagione delle piogge. Negli altri periodi dell’anno possiamo dormire all’aperto, sotto il cielo stellato. Dubito che, anche in inverno, la temperatura si abbassi al punto tale da richiedere un guardaroba pesante. Nel caso, però, ci sarebbero solo foglie e cortecce da utilizzare, oltre ai nostri vecchi e logori abiti.
Penso sia utile saper accendere un fuoco, nel caso occorra far bollire l’acqua. La frutta di solito non si cucina e non abbiamo nemmeno la possibilità di preparare conserve o marmellate. Non abbiamo a disposizione nemmeno barbabietole o canne da zucchero; la pectina presente nella frutta potrebbe esserci d’aiuto allo scopo?
Bollendo l’acqua potremo cercare delle alghe per preparare una fattispecie di brodo di mare. Per le piante selvatiche e aromatiche da utilizzare come decotti vale lo stesso discorso delle bacche: come riconoscerle? Nel dubbio, meglio astenersi.
Come accendiamo il fuoco? Potendo disporre di una lente si utilizzerebbero i raggi solari. In alternativa ci sarebbe lo sfregamento del legno, ma il successo non è assicurato.
Non penso che accendere un fuoco di tanto in tanto ci priverebbe del legname da utilizzare per altri scopi, ma è meglio non eccedere.

Abbiamo trovato una grotta, abbiamo creato un comodo giaciglio con sabbia e foglie. Utilizziamo la grotta anche come dispensa per l’acqua e la frutta. A quel punto cosa ci manca ancora? Avere qualcosa da fare per occupare la mente nel tempo libero.
Non so voi, ma non credo che avrei grosse difficoltà a inventare dei giochi sfruttando l’ambiente. Ma l’ispirazione nasce dal momento e dalla necessità, quindi non posso prevedere in anticipo come sfruttarlo a mio vantaggio.
Si può certamente trascorrere il tempo nuotando, a patto di fare attenzione a squali e pesci velenosi. Per quanto mi riguarda la tintarella è assolutamente evitabile.
Esplorare l’isola e imparare a riconoscere le piante sarebbe un modo produttivo e stimolante di utilizzare il tempo libero. E muoversi, a patto di farlo con prudenza, ci aiuterebbe a rimanere in forma. Non che ci sia il rischio di ingrassare mangiando solo frutta.
Modellare castelli di sabbia? Giocare con i semi utilizzandoli come se fossero biglie? Intrecciare le liane? Scolpire le pietre con altre pietre? Tentare di ottenere materiali gommosi impastando alcuni vegetali? A mio modo di vedere di cose da fare, con un po’ di fantasia, ce ne sarebbero tante.
A me mancherebbero i gatti e, alla lunga, anche un certo tipo d’interazione fisica e mentale con una femmina umana. Quasi certamente mi verrebbe voglia di videogiocare, leggere, scrivere e guardare film, serie tv e anime, ma pazienza.
La gente, intesa come società urbanizzata, invece no: quella non mi mancherebbe.

Ritrovarsi su un’isola deserta equivarrebbe anche a non avere più alcun dovere nei confronti della collettività. Niente lavoro noioso e ripetitivo da svolgere per parecchie ore al giorno. Niente bollette da pagare. Niente traffico, inquinamento atmosferico e acustico. Niente scadenze burocratiche da rispettare. Niente vicini di casa molesti.
Dovremmo fare a meno di controlli medici periodici. La morte potrebbe essere dietro l’angolo a causa di un pezzo di frutta andato di traverso, di una ferita infetta non curata o di un’onda imprevista che ci fa affogare.
Ma la fatalità è in agguato anche nel nostro mondo, quello moderno, tecnologico e sovrappopolato. Di gente che muore ogni giorno, anche in maniera sciocca, ce n’è di continuo.
Al di là di alcune variabili individuali nella nostra avventura sull’isola, penso si possa ragionevolmente pensare che chiunque, disponendo di conoscenze basilari e buon senso, possa riuscire a sopravvivere almeno qualche mese. O sbaglio?
Fame e noia sarebbero sempre dietro l’angolo, ma adesso non stiamo parlando di qualità della vita, ma di quantità. Potremmo sopravvivere qualche mese, o addirittura qualche anno, quali residenti fissi e solitari di un’isola deserta? Io dico di sì.

La nostra attuale esistenza nel mondo moderno può definirsi realmente vita? O sarebbe più appropriata definirla sopravvivenza? Non mi riferisco a una questione puramente economica: pensate più in grande, a 360 gradi.
Confrontandovi quotidianamente con i vostri simili, avvertite mai la sensazione di essere fuori posto, di non comprendere il funzionamento di alcune dinamiche sociali? Almeno una singola volta, nell’arco della giornata, non vi è mai balenato in testa il pensiero che il mondo avrebbe bisogno di una raddrizzata smantellando l’attuale status quo?
A forza di ragionarci non vedo così tante differenze tra naufragare su un’isola deserta e dovermi adattare a un modello di società nel quale ho parecchie difficoltà a integrarmi. Ho utilizzato volutamente il termine adattare.
Se consideriamo Facebook (è solo un esempio: non focalizziamoci su questo punto) un riflesso abbastanza fedele della realtà sociale, penso si possa anche avere un’idea di quale tipo di fauna umana domini il mondo. Il fatto che, per molti aspetti, il già citato mondo stia andando a rotoli dovrebbe essere sufficiente come inconfutabile prova del declino etico e morale dell’umanità.
Siamo circondati da idioti. Gli idioti, a loro volta, si riproducono e allevano altri idioti. L’idiozia non è un reato, quindi dilaga come una pandemia.
Se il mondo reale è popolato da idioti, anche Facebook lo è. Lo sono quasi tutti i social network. E non parlo solo di idioti in quanto tali, ma di utenti che emanano una sorta di aura dalle tinte fosche e minacciose.
Non mi spiego come faccia certa gente a piacere, a essere gradevole al di là dell’apparire. Lasciamo da parte gli influencer, i quali utilizzano particolari strategie pubblicitarie per capire come condizionare la massa. Ma le altre, quelle apparentemente insignificanti, come fanno?

Conosco una volontaria gattara che, come me, vorrebbe aprire un rifugio per gatti in Piemonte. Ci sta provando da anni, senza successo. Su Facebook ho visto che, in Sicilia, alcuni volontari sono riusciti in tale miracoloso intento partendo da zero e in un’area sottosviluppata.
Come me, altri appassionati di scrittura cercano invano di vendere i propri libri. E sempre su Facebook ho visto anche persone che, senza impegnarsi chissà quanto in pubblicità, sono riuscite a farsi notare da qualche grossa casa editrice.
Ci sono persone che organizzano lotterie e pubblicano annunci vari che ottengono zero riscontri. E ci sono quelle che fanno il tutto esaurito con un invito sgrammaticato. Alcune cercano il lavoro dei propri sogni e lo trovano dall’oggi al domani, altre nemmeno nel corso di tutta la vita.
Non riesco a spiegarmi come alcune persone riescano a essere dei centri di gravità sociali.
Non penso sia unicamente questione di abilità imprenditoriali o di fortuna. Non chiamerei nemmeno in causa la sola forza di volontà o la grande disponibilità economica. È solo una questione di simpatia? Si tratta di abile leccaculismo? Sarà una miscela di tutti questi elementi? Non ne ho la più pallida idea.
La verità è questa: c’è gente che riesce in qualunque cosa faccia anche senza impegnarsi e c’è chi si sbatte e non ottiene mai niente. Ma la domanda resta: come fa?

Da qui la riflessione sull’isola che, sono sicuro, non penso sia esclusiva della mia, probabilmente ristretta, visione del mondo.
Sono realmente certo che potrei sopravvivere senza chissà quali gravi traumi su un’isola deserta, così come i fatti dicono che anche qui, in un mondo apparentemente pieno di opportunità per tutti, a malapena riesco ad adattarmi.
Su un’isola deserta, nonostante la fame e la noia, potrei essere unicamente me stesso. Forse lì, al di là delle ovvie problematiche, riuscirei a vivere anziché a sopravvivere. Non dovrei preoccuparmi di come pubblicizzare un libro, di come aprire un rifugio per gatti, di come cercare lavoro come custode in un posto isolato.
Nessuno mi chiederebbe di essere quello che non sono e di fare cose che non voglio fare.
Cos’è che mi differenzia da quelle persone alle quali riesce sempre tutto?
Se si tratta di scrivere riesco a essere creativo, ma in questo caso è come se fossi totalmente privo d’ispirazione. Sono un naufrago analfabeta su un’isola che mi appare come un enorme foglio bianco che rimane tale, perché non so né cosa né come scrivere.

Vittorio Tatti