L’isola era deserta. Vagai a lungo alla ricerca di qualche traccia di civiltà, ma non ne trovai nemmeno una piccola, a esclusione del relitto della piccola barca che mi aveva condotto lì.
Con un po’ di pazienza, forse, avrei potuto utilizzare i rami degli alberi per costruire una zattera di fortuna, ma avrebbe richiesto una non indifferente dose di tempo e, non ultima, una ferrea determinazione di andarmene dall’isola.
Dopo una lunga ricerca mi ero recato volontariamente sull’isola, quindi non avevo alcuna ragione per andarmene. Decisi che quella sarebbe stata la mia nuova dimora, così presi un pezzo di legno e utilizzai la sabbia della spiaggia come superficie sulla quale riportare i miei pensieri; inaugurai la mia nuova pagina di storia su quel luogo sperduto con un elenco delle mie necessità.
Prima di tutto mi sarei dovuto occupare di costruire un rifugio, oppure cercare una grotta ai piedi della piccola montagna centrale presente sull’isola.
In seguito avrei dovuto fare scorta di viveri e acqua potabile; avevo individuato subito un ruscello, mentre avrei potuto ricavare il cibo dai numerosi alberi da frutta presenti.
Mi sarei dovuto adattare a bere solo acqua e latte di cocco, mentre il mio unico cibo sarebbero state banane, ananas e tamarilli; con un po’ di fantasia, però, forse sarei riuscito anche a produrre una sottospecie di frullato tropicale.
Per fortuna trovai subito una caverna – poco profonda a dire il vero – ma sufficiente per contenere me e qualche razione da consumare al momento. Avendo praticamente tutto a portata di mano, riflettei in seguito, mi ero reso conto di non avere un bisogno impellente di accumulare frutta e acqua; non avendo con me alcun tipo di recipiente, inoltre, sarebbe stato problematico trasportare e conservare una grande quantità di alimenti.
La caverna era umida e lugubre, ma decisamente adatta come riparo dal sole cocente e dagli improvvisi acquazzoni tipici della latitudine. Al suo interno scoprii un discreto giacimento di selce, pietra che avrei potuto utilizzare, dopo averla opportunamente lavorata, sia come utensile sia per accendere il fuoco; non ignorai nemmeno la possibilità di servirmene per scrivere sulle pareti della caverna, dal momento che la spiaggia veniva livellata quasi istantaneamente dalle onde marine.
Al termine della mia prima giornata sull’isola disponevo di un riparo, di acqua per dissetarmi, di frutta per sfamarmi e di una pietra con la quale avrei potuto scrivere e dare vita al fuoco.
A rendermi maggiormente felice, però, fu la totale assenza di esseri umani: l’isola era così silenziosa che potevo riuscire a sentire il mio respiro; era un vero paradiso.
Mi addormentai all’istante e così profondamente che non mi resi conto che una famelica tigre dai denti a sciabola, giunta chissà come sull’isola, aveva già iniziato a puntarmi.
Aprii gli occhi solo per rendermi conto che il mio collo era già stretto tra le sue fauci; strinse così forte la mascella da strapparmi di netto una piccola porzione di gola.
Preso da un irrazionale istinto di sopravvivenza portai le mani sulla ferita, nel vano tentativo di tamponare l’inarrestabile flusso di sangue.
La tigre spiccò un balzo verso di me, facendomi rotolare a terra dopo avermi spinto con tutta la propria massa muscolare. Con una zampata mi squarciò il petto, provocando un’ulteriore uscita di sangue. Iniziò a divorarmi le budella, ma io era ancora vivo e cosciente, quindi potevo rendermi conto di ogni suo gesto.
Finalmente i sensi mi abbandonarono e il dolore si fece meno intenso: stavo morendo. Una lieve scossa di terremoto, però, mi destò dall’inevitabile e permanente sonno: il vulcano si era risvegliato proprio in quel momento, spaventando la tigre e costringendola a cercare un riparo.
La parete interna della caverna venne sgretolata dalla pressione e, lentamente, la lava la sommerse. Cercai in qualche modo di rialzarmi, sebbene le mie condizioni fossero già oltre ogni livello di criticità. Neanche all’esterno la situazione era delle migliori: un furioso temporale stava scatenando un inferno di tuoni e fulmini. Uno di essi colpì un albero, il quale mi venne addosso provocandomi la rottura delle braccia e di qualche costola. Con quel grosso ammasso di legno a impedirmi ogni movimento, ragionai, sarei stato raggiunto presto dalla lava.
Con le mani intrise di sangue spinsi il tronco carbonizzato con tutte le mie forze, ma le fratture impedivano ogni sforzo; solo facendo leva con spalle e gambe riuscii miracolosamente a liberarmi. Mi rialzai in piedi e tentai di trovare la salvezza dove la lava si sarebbe raffreddata arrestando il proprio implacabile cammino, ossia in mare.
Dopo essere entrato in acqua fino al petto sentii qualcosa colpirmi la schiena: era uno squalo, evidentemente attirato dall’odore del mio sangue. Corsi verso la riva per sfuggire alla sua presa mortale, ma lì mi trovai nuovamente faccia a faccia con la tigre, la quale si era appostata su uno scoglio per evitare la scia della lava.
Ero circondato: davanti la tigre, dietro lo squalo e a destra la lava; l’unica via di fuga possibile si trovava alla mia sinistra. Effettuai una fuga disperata facendomi guidare dalla luce dei lampi. Mi ritrovai nel folto della foresta, esattamente dalla parte opposta della caverna. La tigre, per raggiungermi, avrebbe dovuto attraversare il fiume di lava o entrare in mare e lottare con lo squalo, quindi ritenni di avere buone probabilità di essere scampato al pericolo.
Il sangue stava continuando a uscire sia dalla gola sia dal ventre, avevo le braccia fratturate e respiravo a fatica a causa della compressione del petto: mi trovavo in una situazione disperata, anche se, ragionando meglio, ero stato fortunato ad essere sopravvissuto così a lungo.
La fitta vegetazione si rese complice della già tenebrosa notte. Il temporale si era placato, così non potei orientarmi grazie alla luce intermittente dei lampi. Per evitare di incappare in qualche altro guaio decisi, saggiamente, di attendere l’alba appoggiandomi a un albero. Nonostante avessi le braccia rotte e le mani tremanti, riuscii a raccogliere un paio di grosse foglie e, con qualche liana penzolante, ottenni dei bendaggi rudimentali; in qualche modo anche dolore e paura si quietarono.
Quando aprii gli occhi, svegliato da un delicato cinguettio, mi accorsi che il sole era già alto oltre l’orizzonte. Ero riuscito a superare la tremenda notte e, sebbene fossi ancora in condizioni fisiche disperate, cominciai a intravedere la speranza.
Rinfrancato dal riposo mi alzai di scatto, ma una goccia caduta sulla mia testa richiamò la mia attenzione. La toccai con un dito e, pur con le mani sporche del mio sangue, scoprii che anche quello che avevo in testa era lo stesso liquido.
Alzai la testa verso l’alto e vidi nuovamente la tigre, diventata a sua volta preda di una creatura più feroce e possente di lei: un tirannosauro!
In quella situazione inverosimile, e con la mia mente annebbiata da tutti gli eventi surreali accaduti fino a quel momento, lanciai un grido di rabbia rivolto al poco estinto dinosauro. Gli tirai una pietra e lo colpii in testa, ma sapevo che non sarei mai riuscito a ucciderlo nemmeno se avessi potuto sollevare un masso.
Arretrai di un passo senza dargli le spalle, ma inciampai in una radice sporgente e caddi rovinosamente al suolo. Il t-rex allungò i propri artigli nella mia direzione, ma venne distratto da una farfalla che gli svolazzava di fronte al muso. Spalancò le fauci e la divorò senza alcuna fatica; dopo pochi secondi l’enorme t-rex stramazzò a terra, privo di vita. Notai un’altra farfalla poco distante da me, mi alzai e la catturai tenendola tra i palmi delle mani. Cercai di osservarla senza farla scappare o farle del male, così mi accorsi della particolare colorazione rossa delle ali. Decisi di liberarla e questa, per ringraziarmi, lasciò cadere sulle mie mani della polverina scarlatta.
Sospettai che fosse velenosa, non solo per la misteriosa morte del t-rex, ma anche perché sapevo che il rosso era un segno di pericolo nel regno animale. Andai verso il mare per pulirmi le mani e darmi una lavata, ma mi ricordai della presenza dello squalo, così cambiai direzione a favore della foce del ruscello.
Il vulcano si era calmato, ma la lava emanava ancora un calore incandescente, quindi sufficiente da impedirmi di andare dall’altra parte e raggiungere la fonte d’acqua dolce; la tigre, con tutta probabilità, o era entrata in mare per superare la lava o aveva fatto il giro dell’intera isola; essendo diventata cibo per il t-rex e non per lo squalo, quest’ultima ipotesi era la più probabile.
Non volendo rischiare di fare un incontro ravvicinato con lo squalo, e sperando che non ci fossero altri dinosauri, valutai la possibilità di fare il giro dell’isola.
Camminando per quel tragitto di tre o quattro chilometri ebbi il tempo per pensare a quelle stranezze: la tigre dai denti a sciabola, il t-rex, la farfalla velenosa e il fatto stesso che l’isola fosse completamente deserta; l’avevo scelta casualmente come meta, ma forse ero incappato in una proprietà governativa dove si svolgevano test sulla clonazione e sulle armi chimiche.
Finalmente vidi di fronte a me il ruscello; per non contaminare l’acqua potabile cercai di andare il più vicino possibile al mare. Mi lavai le mani e l’acqua si colorò di rosso, come se vi avessi versato del sangue. Il ricordo delle ferite mi rammentò che, sulle mani, c’era effettivamente il mio sangue coagulato.
In lontananza vidi la pinna dello squalo emergere, forse calamitato dalle tracce ematiche.
Rimasi sbigottito quando, dopo pochi secondi, lo vidi immobile pancia all’aria: era morto anche lui, forse perché aveva ingerito le minuscole particelle del veleno della farfalla.
La moria si propagò all’intera fauna dell’insenatura, ma non solo. Rivolgendo lo sguardo oltre il fiume di lava mi accorsi che, alcuni volatili, stavano precipitando senza dare segni di vita. Poco più lontano, osservando l’apertura della caverna, vidi sbucare centinaia di quelle farfalle dalle ali rosse.
Cercai di riflettere con calma: forse non mi trovavo su un’isola militare, ma in un remoto angolo di mondo rimasto intatto fin dalla preistoria. La scossa tellurica provocata dal risveglio del vulcano aveva aperto, con ogni probabilità, un varco verso un sottosuolo popolato da animali ritenuti estinti, incluse le letali farfalle.
Solo un particolare non trovava spiegazione: perché io ero ancora vivo? All’inizio pensai che la polvere rossa, per uccidere, dovesse essere ingerita, ma la strage di volatili mi fece intuire che era fatale anche per inalazione, se non addirittura per semplice contatto. Come spiegare, allora, la mia sopravvivenza?
Quando vidi il t-rex e la tigre, che credevo morti, venire verso di me capii tutto: la polvere rossa poteva uccidere, ma anche riportare in vita chi era già morto. Forse le mie ferite erano state così gravi che, dopo essermi addormentato, era sopraggiunta la morte senza che me ne accorgessi. Non ebbi più alcun dubbio: il mio risveglio era stato provocato da un accidentale contatto con la polvere delle farfalle, per quel motivo ne ero diventato immune.
Attesi qualche minuto, poi vidi lo squalo tornare in vita; dopo di lui anche gli uccelli ripresero a volare in cielo. Quelle strane farfalle creavano zombi, ormai era un dato di fatto. Apparentemente c’era una sola differenza tra la vita e la non-vita: chi resuscitava, non dovendosi più nutrire, perdere quella sorta di ferocia dettata dalla fame. Il t-rex non aveva più aggredito la tigre e scommetto che, se fossi entrato in acqua, lo squalo non mi avrebbe degnato di uno sguardo.
Rimase ancora un solo interrogativo per il quale trovare una risposta: sia il t-rex sia la tigre erano ancora vive prima del mio incontro con loro, segno che non aveva avuto alcun contatto con le farfalle prima di salire in superficie. Quindi dovevano esserci diversi livelli di profondità sotto il vulcano: il primo ospitante la fauna preistorica, il secondo residenza sotterranea delle micidiali farfalle; giustificai la presenza della tigre con l’esistenza di qualche passaggio allargatosi, in seguito, con l’eruzione del vulcano.
Dalla caverna, nel frattempo, continuarono a uscire così tante farfalle da oscurare la luce del sole. Contemplai quel poco di cielo che potevo ammirare, riflettendo sulle conseguenze dell’interazione tra il veleno delle farfalle e gli esseri umani.
Secondo la teoria del caos basterebbe lo sbattere di ali di una farfalla per provocare un uragano in Cina. Quelle creature, forse esperimento della natura o forse umano, avrebbero ucciso tutta la popolazione umana, salvo poi riportarla successivamente in vita sotto forma di zombi.
Dall’isola non avrei mai fatto in tempo ad avvisare tutti ma, anche se avessi potuto, sarei rimasto in silenzio: l’umanità aveva bisogno di un reset, di una pulizia permanente di tutti i peccati compiuti fino a quel momento. Le farfalle non avrebbero mai estinto l’umanità: l’avrebbero solo resa finalmente perfetta.
© Vittorio Tatti
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